Mondragon, quando la natura prevale sull’uomo

di Marta Pavan

Non si può domare l’indomabile, ma si può cercare di conviverci

La località di Mondragon si trova nel comune di Tarzo, piccolo paese vicino a Vittorio Veneto. Qui il tempo sembra essersi fermato, non ci sono tracce di urbanizzazione e la natura non ha mai ceduto la terra all’uomo. Gli antichi abitanti di Tarzo erano di stirpe veneto-celtica, considerati quasi dei barbari dai romani, vissero sempre in sintonia con le colline, i boschi, le vigne e gli ulivi. In questo contesto abbiamo incontrato Gabriele, piccolo produttore locale che ha osato sfidare questi luoghi selvaggi nel Mondragon. Il nome di quest’area deriva dal fatto che, guardando la conformazione delle colline, si ha il ricordo della schiena scoscesa di un drago. Siamo a 360 metri sul livello del mare, su una proprietà di circa 3,5 ettari che comprende il bosco, gli ulivi e le vigne. Il territorio è stato completamente recuperato dall’abbandono e regala oggi paesaggi mozzafiato. Nel 2012 Gabriele pianta le prime vigne e l’anno successivo, nel 2013, apre la sua azienda agricola. I suoi vigneti coprono una superficie di neanche un ettaro e sono stati denominati ”Utia”, “Garbeo” e “Larga longa”. I prodotti utilizzati per i trattamenti sono zolfo, rame, microorganismi, alghe e propoli, tutti volti a rispettare la biodiversità del luogo. La produzione annua è di circa 2000 bottiglie e le tipologie prodotte sono Mondragon rifermentato in bottiglia e Mondragon fermo. Il terreno di origine sedimentaria, ricco della cosiddetta “ru”, ossia argilla compatta, è molto difficile da coltivare, in quanto è caratterizzato da pendii e dislivelli impervi.

Dopo un piccolo tour all’interno della proprietà, in cui vi sono anche tre alberi secolari che producono l’antico “per dea cotta” (una storica varietà di pera), ci siamo immersi nella degustazione dei vini di Gabriele iniziando dai prodotti a base glera.

“Glera 2016”, prodotto senza l’aggiunta di solfiti, fermentazione spontanea, con una macerazione sulle bucce di sedici giorni. Da questo deriva il colore dorato, al naso risulta molto fruttato con sentori di frutta gialla matura, accompagnati da note agrumate. Il vino ha fatto anche un passaggio in legno, che ha rilasciato delle piacevoli sensazioni di tostatura. Il tannino dato dalle bucce e dal legno conferisce longevità e stabilità. Ci troviamo in una produzione fuori dagli schemi che non rispetta le solite “regole” di vinificazione adottate per quest’uva. Un produttore che sicuramente vuole osare e distinguersi dalla massa.

“Glera 2017”, vino di color giallo paglierino con riflessi dorati, le note di frutta gialla sono meno spiccate del precedente, ma ben si accostano a quelle burrate e di limone. Anche in questo caso è stata fatta la macerazione prolungata sulle bucce, senza però il passaggio in legno. Si percepisce dalle bucce un tannino morbido.

“Fermo 2016”, un bianco fermo ottenuto da diverse uve tra le quali incrocio Manzoni, il cosiddetto “prosecco malvasia” e la malvasia d’Istria. La macerazione conferisce una maggior estrazione aromatica che si sente bene al naso con spiccati sentori fruttati accompagnati dalle note di gelsomino; in bocca molto forte la sapidità e buona la freschezza.

“Fermo 2017”, vino bianco fermo ottenuto da “prosecco malvasia” e garganega, dal colore giallo paglierino. Al naso emergono le note fruttate, di pesca e di agrumi. Buona la freschezza e molto forte la sapidità.

“Fermo 2018”, un ultimo bianco fermo con uve glera, verdiso, incrocio Manzoni e “prosecco malvasia”. Di color giallo paglierino con riflessi dorati conferiti dalla macerazione. Al naso ben fruttato con prevalenza della pera accompagnata dalla frutta gialla e dal limone, con una leggera nota di burro. Molto fresco e buona la sapidità, i tannini anche in questo caso conferiscono una buona stabilità.

I vini di Gabriele sono senza alcun dubbio legati al territorio e privi di tecnicismi. Ciò che la natura dà in vigna si ottiene alla fine in bottiglia. Questa è un po’ la sintesi della vita a Mondragon, in cui l’uomo è entrato in punta di piedi e per una volta non è il protagonista, ma resta in disparte e cerca di cogliere tutti i segreti della natura.

di Marta Pavan

Breganze, piccolo borgo vicentino, è incastonato tra i fiumi Astico e Brenta ai piedi dell’altopiano di Asiago. Si divide in una parte pianeggiante ed una collinare, quest’ultima a vocazione vitivinicola è caratterizzata da una buona esposizione al sole e da un terreno per la maggior parte di origine vulcanica. È qui che troviamo la Breganze DOC, famosa denominazione che valorizza e tutela i vini e i vitigni di quest’area. Il più famoso fra questi ultimi è sicuramente il vespaiolo che può essere vinificato fermo, spumante o passito, dando vita nell’ultimo caso al ben noto Torcolato. In questa cornice collinare dove negli ultimi anni si è dato sempre maggior spazio ai vitigni internazionali, emergono i Canevisti, gli ultimi rappresentanti di quell’autenticità vera che il territorio sta abbandonando. Si definiscono un gruppo di amici, appassionati vignaioli, provetti vinificatori e saggi bevitori che condividono alcuni valori della cultura del vino. Una cultura che siamo andati a scoprire con i nostri occhi partendo dalla vigna storica di Enrico, chiamata le Zaffanaglie. In questo piccolo vigneto di circa 3000 metri, neanche un campo vicentino, si trovano solo vitigni della tradizione, come groppello, garganega, gruaja e durella; per un totale di 700 viti che adesso si possono anche “adottare”. Con questa sorta di adozione a distanza ogni pianta ha una sua targhetta col nome con cui il proprietario vorrà battezzarla. Una simpatica iniziativa volta a far conoscere ed aiutare questo progetto di rivalutazione del territorio coinvolgendo il maggior numero di persone possibili (ad oggi solo metà delle piante sono state adottate, quindi c’è ancora molto spazio per nuove targhette). Una volta scesi dalla vigna siamo andati a trovare un altro canevista, Cristian, nella sua azienda, la cantina Rarefratte, il cui nome è accompagnato dalla dicitura “vini rari e autoctoni”. Qui davanti ad un buon salame accompagnato a qualche fetta di pane abbiamo assaggiato i vini dei canevisti.

“Bianco del canevista” 2019, un vino bianco fermo dalle uve garganega e durella della vigna storica. Al naso si presenta molto pulito e tecnico, con sentori fruttati di mela verde e limone. La fermentazione è spontanea con controllo della temperatura, mantenuta intorno ai 18/20 °C. Fresco e molto sapido, caratteristica conferita dal terreno vulcanico.

“Rosè groppello e gruaja” 2017, le due uve della vigna storica sono state vinificate in rosato, dando vita ad un vino più “selvatico” del precedente, che meglio caratterizza lo stile dei canevisti. Forte il sentore della fragolina di bosco, il tannino è delicato ed equilibrato e ben accompagna la sapidità.

“Groppello spumante” 2017, vino 100% groppello, caratterizzato da sentori di frutta di sottobosco, molto fresco e quindi con una buona acidità, sapido e con un tannino delicato.  

 “Vespaiolo spumante” 2017, dall’uva regina di queste terre si ottiene uno spumante di color giallo paglierino coi riflessi dorati. Una nota ossidativa al naso ricorda la frutta gialla matura accompagnata dalle note burrate dell’affinamento sui lieviti. Buona acidità e freschezza. Vino che può ancora esprimersi trovando maggior equilibrio.

“Vespaiolo spumante” 2016, ottenuto da vespaiolo in purezza troviamo un vino elegante e delicato, fruttato e floreale al naso con un sentore di crosta di pane, anche in questo spumante l’acidità è buona e conferisce un’ottima freschezza. Rispetto al precedente è più armonico e maturo.

“Groppello in appassimento” 2015, la vigna storica ci regala un ultimo vino, un passito realizzato col groppello in purezza. Al naso risulta subito molto fruttato, con sentori di marmellata di frutti rossi e un pizzico di speziato. Fresco ed elegante, ben bilanciato da un tannino morbido. Ottimo da abbinare alla selvaggina o al cioccolato.

Se è vero che coraggio deriva da “cor” che vuol dire cuore i canevisti ce ne mettono più di tutti. La loro voglia è quella di ritornare alle tradizioni unendo le generazioni passate con quelle presenti e future. Questo viene fatto cercando di rivalorizzare le varietà autoctone, togliendo le sovrastrutture tecnologiche ed ideologiche che ormai hanno portato alla produzione di vini troppo tecnici che non parlano più la lingua della terra.

Se anche tu vuoi adottare una vigna scrivi a: info@canevisti.it

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