Javier Sotomayor Sanabria cubano, artista del salto in alto e detentore del record mondiale di 2,45 metri, record stabilito nel 1993. Il record sta in piedi da 27 anni. Embargo nei confronti di Cuba. Record mondiale di resistenza da parte del popolo cubano. Il record sta in piedi da 61 anni.
Dal primo giorno di questa pandemia siamo letteralmente massacrati dalla retorica.La retorica degli arcobaleni e dei tricolori sui balconi, la retorica de ne usciremo migliori, la retorica dell’andrà tutto bene, la retorica dei medici in trincea, la retorica stucchevole della guerra contro il virus, nemico invisibile. Solo ieri il nostro capo della protezione civile ha dichiarato a proposito della lotta alla pandemia che in periodo di guerra servono leggi speciali adatte alla guerra.
Il Generale Figliuolo tronfio nella sua divisa piena di mostrine gli fa da eco con dichiarazioni simili e postura da istituto luce. Una possibilità di cambiare la storia. Pochi giorni fa abbiamo avuto la possibilità di cambiare la storia e di uscirne veramente tutti migliori.Alla risoluzione dell’Onu che prevedeva la possibilità di sospendere per il periodo della pandemia le sanzioni economiche nei confronti di Cuba il nostro paese in guerra ha votato contro.
Il nostro paese della retorica si è dimenticato degli alleati in questa questa guerra. Si è dimenticato della brigata cubana “ Henry Reeve” composta da medici cubani giunti nella trincea lombarda durante la dura battaglia di Crema , circa un anno fa durante la prima terribile ondata che rischiava di farci arretrare in questa terribile guerra, nonostante i medici e gli infermieri in trincea e bla bla bla.
Siamo in guerra quando ci conviene esserlo e se non ci conviene togliamo il materasso da sotto il culo di Javier Sotomayor Sanabria poco prima che atterri da un’altezza di 2,45 metri.
Il mio lavoro mi ha portato a sentirne di tutti i colori. Quella pedana dietro il banco che ti rialza di qualche centimetro rispetto ai clienti spesso ti consegna anche il superpotere dell’ invisibilità e il cliente chiacchiera con gli altri avventori come se tu, oste da un quintale di peso, non esistessi. Non rivelerò mai le cose private che ho sentito raccontare o che mi sono state raccontate direttamente, mi sento come un prete laico dietro la grata di un confessionale, mi porterò nella tomba i vostri segreti non preoccupatevi.
A volte però, per fortuna, i racconti non sono così privati e il dono dell’invisibilita’ ti da comunque la possibilità di sentire dei racconti di vita meravigliosi e affascinanti, sentiti nella posizione del semplice uditore invisibile che si può fare un’opinione senza per forza dover dire la sua sulle cose. Essere invisibili e muti aiuta a crearsi un’opinione sui “cazzi” degli altri e sulle cose della vita. Tra le cose non private da poter raccontare in questo periodo di navi di traverso mi sono venuti in mente due racconti sentiti tanti anni fa. Due episodi simili per conseguenze, due naufragi in barca a vela.
Il primo raccontato al bar ad un amico davanti a un bicchiere di vino da uno skipper sulla sessantina che, insieme alla sua compagna, intraprendono una traversata oceanica, sogno di una vita tenuto nel cassetto fino al momento della pensione. In mezzo all’oceano, ammesso che l’oceano abbia un mezzo, la barca dei due viene rovesciata da una collisione con una balena.
Il secondo episodio avvenuto ad anni di distanza raccontato, questa volta, ad alta voce a una platea più ampia nello stesso bar da un’altro skipper più giovane che vede come protagonista della collisione invece un container semi affondato che porta alle stesse conseguenze. Il secondo episodio lo avevo quasi rimosso dalla memoria, troppo caciarone e sensazionalistico nell’esposizione del protagonista forse per rimanere vivo nella mia testa , ma in periodo di navi di traverso alte sessanta metri mi è tornato in mente. Un container disperso nel mare da uno di quei mastodonti galleggianti e una balena puzzolente. Così la descrive al bar il protagonista:
“prima della collisione ho sentito una puzza incredibile, le balene sono tremendamente puzzolenti”. Sulla vicenda Suez ci si interroga sulle responsabilità. Colpa di una tempesta di sabbia o piuttosto di un errore umano nella manovra? L’oste grasso e invisibile questa volta vorrebbe dire la sua. Si tratta senza dubbio di un errore umano e l’errore sta a monte nel poter pensare di far navigare delle navi di quelle dimensioni pensando solo al profitto tralasciando le conseguenze che questa scelta può portare.Il coronavirus è veramente causato da un pipistrello? O si tratta piuttosto di un errore umano? Non parlo di errori di laboratorio ma piuttosto della spinta alla globalizzazione che porta a scelte rischiose, molto rischiose.Teniamoci nel cuore i racconti fatti sottovoce di balene puzzolenti.
Continuando il nostro viaggio alla scoperta della Valbelluna siamo andati a trovare Katja Zanon, titolare della cantina Val de Pol, a Codenzano, piccola frazione di Chies d’Alpago. In queste zone un tempo la viticoltura era molto diffusa, poi i paesi hanno iniziato a spopolarsi ed ora sono pochi i vignaioli che tenacemente continuano a produrre vino. Katja è una donna coraggiosa perché ha deciso per scelta personale di piantare e coltivare solo pinot noir. Questa decisione non è stata facile, in molti all’inizio le avevano detto che probabilmente non sarebbe riuscita a portare niente in produzione, ma lei non curante e con duro lavoro riesce a regalarci dei vini che richiamano la Borgogna e sono prodotti a in provincia di Belluno. Il terreno in queste zone presenta calcare, marne ed argilla in percentuali abbastanza omogenee ed una parte ciotolosa. Il clima è favorevole, e quindi perché non osare qualcosa di diverso? Il coraggio di questa produttrice è stato ampiamente premiato. La sua produzione è iniziata nel 2012, è limitata a poche bottiglie e conduce in regime biologico tre ettari di vigna; tutti coltivati a pinot noir. Questa piccola realtà ha in programma una nuova cantina per ampliare la produzione ed arrivare alle diecimila bottiglie. Per i trattamenti in vigna si utilizzano rame e zolfo, l’apporto organico viene fatto con letame proveniente da animali della zona allevati al pascolo e si cerca di arrivare a maturazione con un carico di circa due kg per pianta per la linea base e di un kg per le cru. Il pinot noir è ormai in voga, ma non è per moda che la nostra vignaiola ha deciso di intraprendere questa strada, bensì per passione e per cercare di valorizzare e preservare la viticoltura di nicchia di queste aree. Citando e sue parole: “Produco vino in queste terre perché le amo e credo nelle possibilità di questo bellissimo e sorprendente territorio”.
Questo vitigno come ben sappiamo è molto delicato, necessita di cura e attenzioni costanti, specialmente in vigna. Katja non dispone di un trattore, e lavora tutti i suoi appezzamenti a mano. Un lavoro che richiede tempo ed energie, ma che poi è ben ripagato una volta che l’uva arriva in cantina. Dopo un’estenuante selezione dei grappoli solo gli acini più sani ed in perfette condizioni giungono alla vinificazione. Ed è da qui che parte il nostro viaggio all’interno di questa realtà che ci lascia veramente sorpresi. I vigneti si trovano a cinquecento sessanta metri sul livello del mare, su un terreno molto fragile, come la varietà coltivata. Al giorno d’oggi le frane stanno diventando sempre più frequenti e si stanno manifestando eventi atmosferici che un tempo non c’erano. Un altro esempio sono le gelate tardive che colpiscono questi luoghi in primavera. Un cambiamento positivo è la presenza, da qualche anno, di una ventilazione costante, che aiuta a mantenere i grappoli sani a maturazione. La cantina è molto piccola, poco più di una stanza, e una volta entrati si respira fin da subito aria di Borgogna. Vi sono una piccola vasca di acciaio e un paio di barriques di rovere francese dalla val della Loira. Katja produce una linea base e due cru, chiamate vigna Corletta e Monte Santo. Per queste ultime va in vinificazione con l’acino intero, la macerazione è di circa un mese, con due o tre follature al giorno. Una volta terminato il contatto con le bucce travasa il vino in barriques in cui affina per dieci mesi e conclude con un minimo di otto/dodici mesi di maturazione finale in bottiglia.
Siamo andati ad assaggiare la linea base ancora in vasca d’acciao.
“Pinot nero Còrs” IGT delle Dolomiti. La parola Còrs deriva dal nome dialettale delle stratificazioni di pietra presenti nel suolo. Nel bicchiere ci troviamo davanti ad un vino dal colore rosso rubino luminoso, non inteso, tipico della varietà. Al naso si esprime con profumi di frutta di sottobosco, come fragolina, lampone ribes avvolti dalle delicate note floreali di violetta. Al sorso il tannino è fine e vi è un’ottima acidità. Ci troviamo di fronte ad un pinot dinamico e in movimento, molto delicato ed elegante, che ci lascia la curiosità di assaggiarlo una volta terminato l’affinamento. I vini di Katja si distinguono senza dubbio per personalità, eleganza e coraggio. Il coraggio di sperimentare, ma soprattutto di credere in un progetto ambizioso. Un’azienda di nicchia che lavora seguendo e rispettando i ritmi della natura, e che ci fa sognare una “piccola Borgogna” in Valbelluna. Ci auguriamo che la nostra produttrice possa essere un esempio da seguire per la rivalorizzazione di queste terre che hanno sicuramente molto da raccontarci.