Vespaiolo IGT 2018, Rarefratte, Breganze (VI)

di Gianpaolo Giacobbo

Vespaiolo IGT 2018 Rarefratte

Età media della vigna 120 anni

Suolo vulcanico con piccola presenza argillosa e sabbiosa

Selezione dei grappoli più maturi

Pressatura diretta e fermentazione in cemento

Affinamento: 6 mesi di botte di acacia non tostata e ulteriore affinamento in bottiglia di 1 anno

Servito a temperatura di cantina circa 17 gradi

Bevuto alla sera 21.00

Giorno 21/04/24, radice per il calendario Thun

Questo è un perfetto esempio delle grandi potenzialità della Vespaiola, vitigno autoctono di Breganze, nel vicentino, ai piedi dell’altopiano di Asiago. Luogo di grande vocazone vitivinicola dove suoli vulcanici e calcarei convivono in un abbraccio armonico. 

In questi suoli la Vespaiola si esprime al meglio capace di essere una nobile base spumante, dotata di grande freschezza e intensità, quanto il dolce torcolato. Nel mezzo, le sfumature, che appartengono ai grandi vini. Non sempre questo emerge, ma quando il vignaiolo è dotato si particolare sensibilità e visione il risultato è entusiasmante. Come questo Vespaiolo 2018 di Rarefratte di Cristian Moresco, un produttore che vive con intensità il territorio che gli ha dato i natali e con esso, dialoga nello spazio e nel tempo. 

Vino luminoso sembra oro liquido, emana una luce propria, sinuoso nel movimento nel bicchiere. Il naso rapisce per intensità ed elegante complessità. Si capisce dai primi istanti che ci si trova davanti ad un grande vino sebbene abbia deciso di concedersi lentamente, che di per se è un bel segnale.

Profondo e articolato, sulle prime emergono note di crosta di pane ed evidenti sensazioni di pietra focaia senza che queste possano mai sovrastare il profilo aromatico. Dopo alcuni minuti, un cambio di rotta  verso la frutta matura albicocca e l’agrume disidratato, lo zenzero ,camomilla, pepe  e note balsamiche di eucalipto. Il richiamo alla sorsata è tale che abbandono per un attimo il naso per cercare voluttuoso il bicchiere che non tradisce le aspettative.

Attacco di bocca sapido, l’acidità è presente e ben integrata in una struttura compatta ed elegante. Lo sviluppo gustativo è armonico un perfetto equilibrio con un riverbero che sembra non avere fine. Vino che scorre inizialmente quasi fosse acqua per poi prendere volume riscaldandosi sul palato e sviluppare tutte le sensazioni gustative preannunciate al naso e anche di più.  Dotato anche di una giusta grassezza che avvolge il palato, quasi una cremosità. Rapisce mentalmente il suo fare imprevedibile,  a sei anni dalla vendemmia dimostra di aver ancora molto da dire anche se ho la sensazione di averlo colto nel suo momento migliore.

Abbinato ad una pizza fatta in casa, da mia moglie, e asparagi verdi della Cooperativa Sociale Conca d’Oro. Matrimonio perfetto quasi tradizionale sarebbe andato molto bene anche l’asparago bianco di Bassano Dop ma questo avevo in casa.

Lo dico sottovoce ma alla cieca mi avrebbe condotto in Borgogna probabilmente per quel suo essere così vibrante per le sue note complesse ma nel contempo di facile approccio. Non amo questi paragoni ma quel che ho provato è stato sorta di flashback verso Meursault. 

Biondo Jeo, la corte sconta dell’asolano

L’area dell’Asolo Prosecco l’ho scoperta in ritardo rispetto a Valdobbiadene. Forse perché per molti anni è stata più una zona di coltivazione dell’uva e solo in epoca relativamente recente, dagli inizi degli anni duemila, è anche zona di produzione di vino. E’ un luogo che dista pochi chilometri da casa mia e che frequento da tempo, non fosse altro per la bellezza della natura che qui sa esprimersi in modo magistrale. Un luogo ricco di storia e biodiversità dove le colline si alternano a ritmo regolare e dove i boschi di castagni si fondono con gli ulivi e le vigne. Mi ha sempre incuriosito assaggiare i vini dell’asolano, al mio diciottesimo compleanno ho chiesto in regalo una selezione dei vini di Villa Maser. A volte capitava che, con mio padre, negli anni ottanta, andassi da qualche contadino a comprare il vino sfuso da imbottigliare, ma era un mondo che faticava ad esprimersi e a mettersi in mostra e, al quel tempo, lontano da me.

Di tutte le sottozone della denominazione dell’Asolo Prosecco, Monfumo è quella che mi intriga maggiormente e che, per certi versi, trovo in un equilibrio ideale in termini di rapporto suolo, clima e luogo.

Agli inizi degli anni duemila conobbi indirettamente i vini di quello che chiamavano il “Biondo”, facile intuire perché. Un produttore dal fare anarchico e disallineato che destava in me un certo interesse. I vini non sempre allora mi convincevano, o meglio, li trovavo un po’ altalenanti a volte molto interessanti altre diciamo rinunciabili. Ma è proprio quell’alternanza di risultato che alimentava in me la curiosità, facendomi intendere che dietro, si sarebbe potuto nascondere un vignaiolo coraggioso, capace di osare. L’idea che mi ero fatto era che dietro quelle bottiglie ci fosse qualcuno che non si accontentava mai e che voleva esplorare le potenzialità del suo luogo e del vitigno

Non mi sbagliavo.

Con il tempo conobbi Cristian De Lucchi il figlio del Biondo. Cristian era colui che, dietro le quinte, operava nella produzione del vino e nella gestione della vigna. 

La loro cantina sembra quasi sfuggire a tutto. Non ci sono insegne che possano portare a scovarla se non una bella piastra in corten fuori dalla porta della cantina incastonata nella collina ma a quel punto sei arrivato a destinzione. Ovviamente con i navigatori satellitari di oggi tutto è più semplice io ci sono arrivato chiedendo alla gente del luogo dove si trovasse Biondo Jeo. 

Capita così che, in una serata di fine estate quando il sole volge al tramonto, le ombre si allungano e le zanzare entrano in azione, io e Cristian ci troviamo sotto alla pergola a degustare qualche bottiglia di quelle prodotte da lui.

Le sorprese non mancano, a partire dalla Rossona di Monfumo, così mi viene presentata, una varietà autoctona non ancora codificata che sembra possa rappresentare una delle madri della glera secondo l’analisi del DNA. Per ora un’uva da pergola e un vino non commercializzato ma di sicuro qualcosa estremamente interessante. Vino ancora nella sua fase embrionale ma da non sottovalutare come interesse e piacevolezza di beva, dal colore rosso rubino acceso, luminoso e rifermentato in bottiglia.

Un colore molto acceso e un profumo delicato, fine di frutti rossi,di fragolina di bosco, arancia sanguinella e timo di montagna. Al palato entra con il fare gentile della bolla cremificata ed è subito scattante e succoso. Emerge una sensazione dolce e acida nel contempo che può ricordare la rosa canina o il carcadè, quel fiore di Hibiscus da cui si ricava una bevanda dissetante usata nelle zone desertiche del nord Africa. Servito a temperatura fresca risulta un buon corroborante a fine giornata e dissetante.

Ma Cristian decide puoi di calare l’asso, orgoglioso come è, non resiste alla tentazione di aprire la sua prima bottiglia di metodo classico a base bianchetta trevigiana in purezza del millesimo 2006 sboccato alla volée prima del servizio per cui con 17 anni di sosta sui lieviti. Il 2006 è stata una bella annata con uva arrivata in cantina in ottimo stato di conservazione. Vinificato in bianco quindi con pressatura diretta senza sosta sulle bucce. Il vino è stato aperto alle 18.30

Colore ambrato effervescenza presente e continua che forma una corolla sulla superficie del vino.Il naso parte da una prima fase lievemente riduttiva ma bastano pochi istanti perché inizi una sinfonia di aromi che difficilmente dimenticherò. Naso variegato di  miele di castagno emerge una sensazione di idrocarburo e agrume disidratato danto da ricordare un riesling della mosella. Successivamente arrivano note di camomilla zenzero disidratato, la speziatura del pepe bianco, bergamotto, il balsamico dell’eucalipto e il cardamomo. Complessa questa parte aromatica sembra non volersi mai arrendere e ci dona ancora il  porcino crudo arancia amara cioccolata bianca nocciola tostata. Sono le 18.58 le nostre chiacchiere si intensificano e con questo vino che fa cadere i primi filtri inibitori, i nostri pensieri si fondono. Escono note tostate di orzo tisana di timo.

Al palato la bollicina è cremosa il vino, a dispetto del tempo è ancora vivo e non mostra segni di ossidazione nemmeno uno. Complice la presenza dei lieviti in bottiglia e una bella acidità riesce a sfidare gli anni che passano con disinvoltura.

L’acidità rimane presente e  persistente vino sapore ben integrato armonico, con un finale lievemente amarotico di radice di genziana e una componente sapida importante figlio della marna. E’ un vino rotondo appagante e godurioso.

La bottiglia finisce il sole oramai è oltre le colline e il cielo si tinge di rosa. Io e Cristian pensiamo che al di la dei vari slogan che si possano pensare la risposta della vocazione di un luogo avviene dal bicchiere e dal tempo, ingrediente che pochi considerano nel produrre vino ma che fa la grande differenza.

Esperienza che non dimenticherò, inserirò questo Metodo Classico Bianchetta di Monfumo 2006 tra i vini più entusiasmanti che abbia mai bevuto di cui ha goduto indirettamente anche qualche zanzara asolana.

Serate Walk on the Wine Side

US Slow Wine Tour 2024

18 marzo Washington DC

19 marzo New York City

21 marzo Austin

25 marzo Denver

27 marzo San Francisco

Lugana di Sirmione, 16 dicembre 2022 ore 20.00

Storica Verticale Ca’ dei Frati Amarone della Valpolicella Pietro Dal Cero 

Sarò fianco a fianco a Bernardo Pasquali e Maria Chiara Dal Cero presso la sede Ca’ dei Frati

Otto annate un degustazione 

2008-2009-2010-2011-2012-2013-2015-2016

Milano, 23 – 24 ottobre 2022 INCONFONDIBILE

Festival dei vini rifermentavi in bottiglie e ancestrali

Con Massimo Zanichelli condurremo 6 Masterclass dedicate a questa tipologia

Qui troverete il programma https://inconfondibile.wine/programma/

Perugia, Enoteca Venti Vino 18 ottobre 2022

Degustazione L’ombra del Prosecco

Venezia 29 settembre 2022

Serata con AIS Venezia dedicata ai rifermentati in bottiglia

Conca d’Oro Bassano del Grappa 21 luglio 2022

Profondo Rosso incontro con Don Andrea Guglielimi

Londra, 20 giugno 2022

30 anni di Liberty Wines con Ca’ dei Frati

Dusseldorf -Germania 14- 16 maggio ProWein

Stand Ca’ dei Frati – Vinissimo G13

02-03-04 aprile 2022 Italian Spring Tour Arkè Vini

Roma, Firenze, Cremona

Gambellara 9 aprile 2022

Seminario Rifermentati a Vinnatur

Milano, 25 marzo 2022

Rost, The House Of Riesling Sun

Roma, 21 Marzo 2022

Seminario sul mondo della fermentazione con Maurizio Donati

Bassano del Grappa, 3 marzo 2002

Conca d’Oro serata con

Christian Zago Ca dei Zago, Loris Follador Casa Coste Piane, Martino Tormena Mongarda

US Slow Wine Tour 2022

22 gennaio 5 febbraio 2022

San Francisco CA

Seattle WA

Austin TX

Miami FL

New York NY

Bassano del Grappa, 16 dicembre ore 20.30

Fattoria Sociale Conca d’Oro presentazione del libro “Il cuore del vino” di Piero Riccardi prefazione di Gianpaolo Giacobbo

2 dicembre in Conca d’Oro Fattoria Sociale

10 novembre da Itko in Valpolicella

10 anni di Vigna del Peste di Terre Di Pietra!

Avró l’onore di essere a fianco di Saletti Cristiano per raccontare questi anni e questi vini.

23 novembre da La Ciacola a Breganze VI

12 novembre Fattoria Sociale Conca d’Oro Bassano del Grappa

Ciceroni d’eccezione nel mondo agricolo della zucca e del vino Andrea Giubilato e @gianpaolo.giacobbo

Un menù a tema accompagnato da vini naturali selezionati ad hoc per ogni portata.

Solo su prenotazione al 347.712021555€ a persona #autunno#zucca#vino#wine#naturalwine#sucche#pumpkin

24 ottobre 2020

Al Gustus di Vicenza presso il Conservatorio di Musica Arrigo Pedrollo

Masterclass sui territori dei vini dei Colli Berici

Terreni Calcarei e Terreni Vulcanici

Prenotazione e acquisto biglietti

bit.ly/Gustus_2021_biglietti

15 ottobre 2021

I vini delle prealpi bellunesi in collaborazione con FISAR Treviso e Slow Wine con Patrizia Loiola

Ristorante Ca’ Landello Santa Maria di Campagna 13

Noventa di Piave (VE)

Per info: segretario.sandonadipiave@fisar.com

17 ottobre 2021

Inconfondibile Festival dei rifermentati in bottiglia con Massimo Zanichelli

Area Fiera Santa Lucia di Piave (TV)

Per info e prenotazioni Masterclass https://inconfondibile.wine/

21 ottobre 2021

Umbria Indie con Giampiero Pulcini

Fattoria Conca d’Oro a Bassano del Grappa (VI)

Info e prenotazioni 347 7120215

Sass de mura, valorizzazione della viticoltura in Valbelluna

Vini veri ed autentici che parlano la lingua della terra

di Marta Pavan

Concludiamo il nostro viaggio alla scoperta dei vini delle Dolomiti con Edda Bonifacio che col marito Mauro è titolare dell’azienda vitivinicola Sass de mura a San Gregorio nelle Alpi. La nostra produttrice parte da Colbertaldo, terra di prosecco, con la famiglia e decide di cambiare vita. Una svolta dovuta alla ricerca di una vita più sana e in mezzo alla natura. Questo con l’obiettivo di iniziare un nuovo progetto, di viticoltura vera e sostenibile. Gli inizi non sono stati sicuramente facili, infatti la nostra vignaiola col marito, acquista un appezzamento abbandonato e l’unico strumento a loro disposizione era la zappa della nonna. Così nel 2008, seguendo un progetto di Veneto agricoltura per la reintroduzione della vite in montagna, viene piantato il vigneto sperimentale. Un lavoro di recupero e di valorizzazione del territorio. 

Edda ci racconta che quando è arrivata a San Gregorio nelle Alpi le vigne erano poche e fin da subito decide che la sua produzione sarà tutta biologica. Le varietà piantate inizialmente erano otto: pinot nero, cabernet sauvignon, traminer aromatico, muller thurgau, trevisana nera, bianchetta, merlot, teroldego e chardonnay. Le difficoltà ci sono state fin dall’inizio, ma la voglia e la determinazione hanno spinto la nostra produttrice a non mollare e a continuare a credere nel suo progetto.

L’azienda oggi conta circa 1,3 ettari, con all’incirca cinquemila bottiglie l’anno prodotte. Siamo a cinquecento metri di altezza sul livello del mare e le varietà coltivate sono pinot noir, cabernet cortis, chardonnay, traminer aromatico, e bronner. La composizione dei terreni è diversificata, in alto è più sassosa, a valle invece troviamo argilla e limo.  Il pinot noir e il traminer sono varietà molto sensibili ed è difficile portare a maturazione le uve sane, ma sono quelle che identificano l’azienda, e quindi Edda decide di portarle avanti con tanti sacrifici. Dopo aver fatto due passi in vigna siamo andati ad assaggiare i vini di Sass de mura. 

“Rosa frizzante” 2018, da pinot noir in purezza, vendemmiato a metà settembre. La fermentazione avviene con i lieviti indigeni grazie al pied de cuve dopo la pressatura soffice a grappolo intero. La fermentazione malolatttica avviene poi in un secondo momento nel periodo primaverile.  Il vino sosta in vasca fino a maggio e anche oltre, poi viene imbottigliato. In bottiglia avviene la rifermentazione e viene venduto dopo almeno altri sei mesi. Questo rosato si presenta con un colore rosa antico brillante, al naso è fine ed elegante con note di frutta di sottobosco come fragolina, ribes e lampone, avvolte dalla delicata rosa canina. Al sorso la bollicina è vivace e dinamica; un vino fresco, dritto e deciso, con un’ottima verticalità. Al tempo stesso è minerale richiamando il terroir di cui è figlio ad ogni sorso.  

“Bianc” 2018, da un uvaggio di traminer aromatico, chardonnay e bronner. Le uve vengono macerate tutte assieme per tre giorni, consentendo un’estrazione ottimale. Nelle ultime due vendemmie invece viene macerato solo il traminer. Questo bianco si presenta di color giallo paglierino intenso, con profumi fruttati di litchi, mela gialla e mango; spalleggiati dalle note di fiori gialli. In bocca troviamo un vino equilibrato tra morbidezza e freschezza, con un’ottima mineralità che richiama il tipico sasso dolomitico. 

I vini di Edda e Mauro sono veri ed autentici, come la loro produttrice. Richiamano la vitalità, intesa come dinamismo, qualcosa che ha una vita indipendente e che genera emozioni. Ci troviamo in una realtà che pratica una viticoltura sostenibile e vera, con l’obiettivo di valorizzare e soprattutto tutelare la biodiversità di questi luoghi. È bello poter assaggiare dei vini che parlano la lingua della terra di cui sono figli e preservano questo meraviglioso territorio che è la Valbelluna. 

Frozen Vineyards

di Gianpaolo Giacobbo

Il flusso d’aria siberiana si sta facendo sentire, non solo nell’abbassamento delle temperature percepite, ma anche tra i filari delle vigne. Eh già, non bastava l’Annus orribilis che abbiamo vissuto e continuiamo a vivere, non bastava la grandine sempre più violenta, vogliamo perderci una gelata?

Nel periodo primaverile, proprio quando tutto sta rinascendo, quando anche noi abbiamo la sensazione di tornare a riprenderci le nostre vite, può accadere che possa arrivare quella coda d’inverno capace di compromettere l’attività della pianta già sul nascere. Già nella primavera del 2017 abbiamo assistito ad un fenomeno che ha compromesso buona parte della coltura del nord Italia e anche in Francia. Cosa si può fare per salvare le vigne o le colture quando le temperatura precipita vertiginosamente sotto lo zero?

Nell’alta Borgogna assistiamo a coreografiche accensioni di fuochi tra i filari, che possano recuperare qualche grado di temperatura per evitare al gelo di prendere il sopravvento. Tecnica importata anche a casa nostra di cui però non se ne conosce l’esito. 

A difesa di questo evento, ssiste un metodo di irrigazione, anti brina, che provvede a distribuire l’acqua sulla superficie della vigna affinché si possa creare una sorta di strato protettivo di ghiaccio sulla gemma. A quel punto l’interno dell’involucro ghiacciato, non scenderà mai al di sotto dello zero salvaguardando, in parte, il raccolto o perlomeno contribuendo a limitare i danni. Sostanzialmente si tratta di una nebulizzazione generata che si poggia sulla pianta. Per i produttori sono momenti di grande tensione che si sommano ai numerosi a cui purtroppo il cambio climatico ci sta abituando. La natura si dimostra a volte violenta ma queste sono le regole del gioco a cui bisogna sottostare.

Foto di Maurizio Favrel nella vigna Malibran a Susegana

Hanno levato il materasso prima dell’atterraggio

Di Walter Cogotti, Oste a “Il Chiosco” in Padova

Hanno levato il materasso prima dell’atterraggio.

Javier Sotomayor Sanabria cubano, artista del salto in alto e detentore del record mondiale di 2,45 metri, record stabilito nel 1993. Il record sta in piedi da 27 anni. Embargo nei confronti di Cuba. Record mondiale di resistenza da parte del popolo cubano. Il record sta in piedi da 61 anni.

Dal primo giorno di questa pandemia siamo letteralmente massacrati dalla retorica.La retorica degli arcobaleni e dei tricolori sui balconi, la retorica de ne usciremo migliori, la retorica dell’andrà tutto bene, la retorica dei medici in trincea, la retorica stucchevole della guerra contro il virus, nemico invisibile. Solo ieri il nostro capo della protezione civile ha dichiarato a proposito della lotta alla pandemia che in periodo di guerra servono leggi speciali adatte alla guerra.

Il Generale Figliuolo tronfio nella sua divisa piena di mostrine gli fa da eco con dichiarazioni simili e postura da istituto luce. Una possibilità di cambiare la storia. Pochi giorni fa abbiamo avuto la possibilità di cambiare la storia e di uscirne veramente tutti migliori.Alla risoluzione dell’Onu che prevedeva la possibilità di sospendere per il periodo della pandemia le sanzioni economiche nei confronti di Cuba il nostro paese in guerra ha votato contro.

Il nostro paese della retorica si è dimenticato degli alleati in questa questa guerra. Si è dimenticato della brigata cubana “ Henry Reeve” composta da medici cubani giunti nella trincea lombarda durante la dura battaglia di Crema , circa un anno fa durante la prima terribile ondata che rischiava di farci arretrare in questa terribile guerra, nonostante i medici e gli infermieri in trincea e bla bla bla.

Siamo in guerra quando ci conviene esserlo e se non ci conviene togliamo il materasso da sotto il culo di Javier Sotomayor Sanabria poco prima che atterri da un’altezza di 2,45 metri.

Mi mancano da morire le chiacchiere da bar

di Walter Cogotti, Oste a “Il Chiosco” in Padova

Il mio lavoro mi ha portato a sentirne di tutti i colori. Quella pedana dietro il banco che ti rialza di qualche centimetro rispetto ai clienti spesso ti consegna anche il superpotere dell’ invisibilità e il cliente chiacchiera con gli altri avventori come se tu, oste da un quintale di peso, non esistessi. Non rivelerò mai le cose private che ho sentito raccontare o che mi sono state raccontate direttamente, mi sento come un prete laico dietro la grata di un confessionale, mi porterò nella tomba i vostri segreti non preoccupatevi.

A volte però, per fortuna, i racconti non sono così privati e il dono dell’invisibilita’ ti da comunque la possibilità di sentire dei racconti di vita meravigliosi e affascinanti, sentiti nella posizione del semplice uditore invisibile che si può fare un’opinione senza per forza dover dire la sua sulle cose. Essere invisibili e muti aiuta a crearsi un’opinione sui “cazzi” degli altri e sulle cose della vita. Tra le cose non private da poter raccontare in questo periodo di navi di traverso mi sono venuti in mente due racconti sentiti tanti anni fa. Due episodi simili per conseguenze, due naufragi in barca a vela.

Il primo raccontato al bar ad un amico davanti a un bicchiere di vino da uno skipper sulla sessantina che, insieme alla sua compagna, intraprendono una traversata oceanica, sogno di una vita tenuto nel cassetto fino al momento della pensione. In mezzo all’oceano, ammesso che l’oceano abbia un mezzo, la barca dei due viene rovesciata da una collisione con una balena.

Il secondo episodio avvenuto ad anni di distanza raccontato, questa volta, ad alta voce a una platea più ampia nello stesso bar da un’altro skipper più giovane che vede come protagonista della collisione invece un container semi affondato che porta alle stesse conseguenze. Il secondo episodio lo avevo quasi rimosso dalla memoria, troppo caciarone e sensazionalistico nell’esposizione del protagonista forse per rimanere vivo nella mia testa , ma in periodo di navi di traverso alte sessanta metri mi è tornato in mente. Un container disperso nel mare da uno di quei mastodonti galleggianti e una balena puzzolente. Così la descrive al bar il protagonista:

“prima della collisione ho sentito una puzza incredibile, le balene sono tremendamente puzzolenti”. Sulla vicenda Suez ci si interroga sulle responsabilità. Colpa di una tempesta di sabbia o piuttosto di un errore umano nella manovra? L’oste grasso e invisibile questa volta vorrebbe dire la sua. Si tratta senza dubbio di un errore umano e l’errore sta a monte nel poter pensare di far navigare delle navi di quelle dimensioni pensando solo al profitto tralasciando le conseguenze che questa scelta può portare.Il coronavirus è veramente causato da un pipistrello? O si tratta piuttosto di un errore umano? Non parlo di errori di laboratorio ma piuttosto della spinta alla globalizzazione che porta a scelte rischiose, molto rischiose.Teniamoci nel cuore i racconti fatti sottovoce di balene puzzolenti.

Pensiamo ai bar che chiusi non possono stare.

Foto di Gianni Umicini

Val de Pol, il Pinot Noir delle Dolomiti

“La piccola Borgogna” della Valbelluna

di Marta Pavan

Continuando il nostro viaggio alla scoperta della Valbelluna siamo andati a trovare Katja Zanon, titolare della cantina Val de Pol, a Codenzano, piccola frazione di Chies d’Alpago. In queste zone un tempo la viticoltura era molto diffusa, poi i paesi hanno iniziato a spopolarsi ed ora sono pochi i vignaioli che tenacemente continuano a produrre vino.  Katja è una donna coraggiosa perché ha deciso per scelta personale di piantare e coltivare solo pinot noir. Questa decisione non è stata facile, in molti all’inizio le avevano detto che probabilmente non sarebbe riuscita a portare niente in produzione, ma lei non curante e con duro lavoro riesce a regalarci dei vini che richiamano la Borgogna e sono prodotti a in provincia di Belluno.  Il terreno in queste zone presenta calcare, marne ed argilla in percentuali abbastanza omogenee ed una parte ciotolosa. Il clima è favorevole, e quindi perché non osare qualcosa di diverso? Il coraggio di questa produttrice è stato ampiamente premiato. La sua produzione è iniziata nel 2012, è limitata a poche bottiglie e conduce in regime biologico tre ettari di vigna; tutti coltivati a pinot noir. Questa piccola realtà ha in programma una nuova cantina per ampliare la produzione ed arrivare alle diecimila bottiglie. Per i trattamenti in vigna si utilizzano rame e zolfo, l’apporto organico viene fatto con letame proveniente da animali della zona allevati al pascolo e si cerca di arrivare a maturazione con un carico di circa due kg per pianta per la linea base e di un kg per le cru.  Il pinot noir è ormai in voga, ma non è per moda che la nostra vignaiola ha deciso di intraprendere questa strada, bensì per passione e per cercare di valorizzare e preservare la viticoltura di nicchia di queste aree. Citando e sue parole: “Produco vino in queste terre perché le amo e credo nelle possibilità di questo bellissimo e sorprendente territorio”. 

Questo vitigno come ben sappiamo è molto delicato, necessita di cura e attenzioni costanti, specialmente in vigna. Katja non dispone di un trattore, e lavora tutti i suoi appezzamenti a mano. Un lavoro che richiede tempo ed energie, ma che poi è ben ripagato una volta che l’uva arriva in cantina. Dopo un’estenuante selezione dei grappoli solo gli acini più sani ed in perfette condizioni giungono alla vinificazione. Ed è da qui che parte il nostro viaggio all’interno di questa realtà che ci lascia veramente sorpresi. I vigneti si trovano a cinquecento sessanta metri sul livello del mare, su un terreno molto fragile, come la varietà coltivata. Al giorno d’oggi le frane stanno diventando sempre più frequenti e si stanno manifestando eventi atmosferici che un tempo non c’erano. Un altro esempio sono le gelate tardive che colpiscono questi luoghi in primavera. Un cambiamento positivo è la presenza, da qualche anno, di una ventilazione costante, che aiuta a mantenere i grappoli sani a maturazione.   La cantina è molto piccola, poco più di una stanza, e una volta entrati si respira fin da subito aria di Borgogna. Vi sono una piccola vasca di acciaio e un paio di barriques di rovere francese dalla val della Loira. Katja produce una linea base e due cru, chiamate vigna Corletta e Monte Santo. Per queste ultime va in vinificazione con l’acino intero, la macerazione è di circa un mese, con due o tre follature al giorno. Una volta terminato il contatto con le bucce travasa il vino in barriques in cui affina per dieci mesi e conclude con un minimo di otto/dodici mesi di maturazione finale in bottiglia.  

Siamo andati ad assaggiare la linea base ancora in vasca d’acciao. 

“Pinot nero Còrs” IGT delle Dolomiti. La parola Còrs deriva dal nome dialettale delle stratificazioni di pietra presenti nel suolo. Nel bicchiere ci troviamo davanti ad un vino dal colore rosso rubino luminoso, non inteso, tipico della varietà. Al naso si esprime con profumi di frutta di sottobosco, come fragolina, lampone ribes avvolti dalle delicate note floreali di violetta. Al sorso il tannino è fine e vi è un’ottima acidità. Ci troviamo di fronte ad un pinot dinamico e in movimento, molto delicato ed elegante, che ci lascia la curiosità di assaggiarlo una volta terminato l’affinamento.  I vini di Katja si distinguono senza dubbio per personalità, eleganza e coraggio. Il coraggio di sperimentare, ma soprattutto di credere in un progetto ambizioso. Un’azienda di nicchia che lavora seguendo e rispettando i ritmi della natura, e che ci fa sognare una “piccola Borgogna” in Valbelluna. Ci auguriamo che la nostra produttrice possa essere un esempio da seguire per la rivalorizzazione di queste terre che hanno sicuramente molto da raccontarci. 

Alberto Oggero, innovazione continua in Roero

Sperimentazione come parola chiave per vini veri ed autentici

di Marta Pavan

Il nostro viaggio alla scoperta del Roero continua e non con poche sorprese. Abbiamo già raccontato la bellezza di questo territorio sulla sponda sinistra del Tanaro ed oggi siamo andati a trovare Alberto Oggero, cofondatore dell’Associazione SoloRoero con le aziende Valfaccenda e Cascina Fornace. Ci troviamo di fronte ad un giovane produttore che fin dal 2003 inizia le sue sperimentazione per capire come non doveva produrre il suo vino. Sembra strano, ma molte volte per riuscire a trovare la propria strada ed ottenere un prodotto di qualità che possieda un’anima bisogna imparare cosa non ci piace e vogliamo evitare. In questo periodo, fino al 2009, il nostro produttore cerca di capire qual è la sua filosofia e che trama vorrà usare per condurre i suoi vini. Nel 2010 Alberto apre la sua azienda con un’iniziale produzione annua di circa cinquecento bottiglie fino ad arrivare alle ventimila di oggi divise in cinque etichette. La superficie vitata copre cinque ettari, su dodici in totale, di cui i restanti rimangono a bosco. I vigneti sono coltivati seguendo il regime biologico, con trattamenti di rame, zolfo e propoli. Il nostro produttore ci racconta che investe molto nella gestione del suolo, con l’utilizzo delle erbe mediche, per apportare sostanze organiche e contrastare l’erosione del terreno vista la conformazione sabbiosa. La cascina dove Alberto vive e ha sviluppato la sua azienda è del 1860, coltiva nebbiolo ed arneis, varietà autoctone della zona; il vitigno a bacca bianca non ha una storicità importante, infatti veniva piantato qua e là fra le viti di nebbiolo. L’idea di produrre un vino bianco è nata con uno scopo commerciale verso la fine degli anni ’70. Con l’arrivo dei primi supporti tecnologici nelle cantine durante gli anni ’90 l’arneis ha trovato la sua fortuna, con una produzione omologata e tecnica. Il nostro vignaiolo ci racconta che le bottiglie venivano lanciate nel mercato a Natale della stessa vendemmia, cosa che succede ancora oggi. Alberto si discosta da questo stile, e ci presenta la sua visione di vino bianco; così abbiamo iniziato la nostra degustazione.

“Roero” 2019, da arneis in purezza, frutto di vigne diverse, la prima meglio esposta e le uve che derivano sostano cinque giorni sulle bucce per avere un’estrazione ottimale, una volta svinato, il vino passa in botte grande di rovere da trenta ettolitri e qui svolge la malolattica. Con le restanti la vinificazione e l’affinamento avvengono in acciaio senza macerazione; in tarda primavera le due diverse masse sono unite e l’imbottigliamento avviene in estate. Il risultato finale è un bianco dai sentori ben fruttati e floreali di gelsomino e acacia, un rinfrescante richiamo salino e una nota burrosa. In bocca è croccante e di buona struttura conferita dall’ottima presenta dei tannini ben integrati ed in equilibrio con l’acidità, un ottimo bianco fresco e di personalità.

L’annata 2019 è uscita a gennaio 2021, e ci racconta che il vino ha bisogno di tempo, altri aspetti innovativi dei vini della cantina Oggero sono la macerazione e la fermentazione malolattica, che per i bianchi tecnici ed omologati sono inconcepibili.

“Valle dei Lunghi” 2019, da uve 100% arneis. Questo vino è un chiaro esempio di innovazione e sperimentazione. La macerazione è di dodici giorni a cui poi segue la maturazione in cemento. Al naso troviamo un bianco con profumi di frutta matura, con la mela gialla, avvolta dalle note di resina e miele di castagno. Al sorso è ben sapido ed acido, persistente e di ottimo corpo. Una nuova espressione dell’arneis, fuori dagli schemi e con un’anima che vuole andare contro il tecnicismo e l’omologazione che ha caratterizzato questo vitigno per anni.

“Sandro” 2019, ci siamo spostati verso il nebbiolo. Iniziando con un rosso introduttivo. Il nome del vino è dedicato al nonno di Alberto. L’idea è quella di rappresentare il territorio, la vigna è chiamata San Michele, su terreno 66% sabbioso. Le uve sostano sulle bucce per cinque giorni a cui poi segue l’affinamento in cemento, senza passaggio in legno. L’obiettivo è regalare un vino che possa stare sulla tavola tutti i giorni, con una buona beva. Si esprime con note fruttate di ciliegia e floreali di viola e rosa canina. Al sorso è divertente, allegro, con un’ottima freschezza. Un vino che dove lo metti sta, meglio se con un buon salame.

“Roero classico” 2018, ottenuto da uve nebbiolo di una singola vigna di trent’anni, denominata Le coste ed esposta a sud. In questo caso la macerazione è di venti giorni per esaltare il profilo aromatico del vino, poi la maturazione di dodici/quattordici mesi avviene in legno e dona un’ottima struttura. Al naso si presenta con note fruttate di frutta rossa, violetta, spalleggiate dalle spezie. Un vino vivace, fresco e sapido. Un ottimo esempio di nebbiolo del Roero che richiama il territorio.

“Roero riserva” 2016, da uve 100% nebbiolo, provenienti dalla vigna Anime di ottant’anni, con esposizione sud-ovest, situata in un piccolo anfiteatro naturale che raccoglie molto bene il calore. Il suolo è sabbioso, le radici delle viti sono molto profonde e difficilmente le piante soffrono di stress idrico. Questo vino al naso è molto fine ed elegante con ciliegia e prugna avvolte dalla violetta, alle quali si accostano le delicate note speziate di tabacco, cannella e pelle. A completare il tutto si aggiunge la tostatura conferita dal legno con la vaniglia. In bocca è dinamico, vivo, con un tannino vellutato che con l’acidità lo tiene in movimento. Un rosso che esalta il terroir, frutto di duro lavoro dalla vigna alla bottiglia.

Il nostro viaggio all’interno della cantina Oggero è terminato. Alberto ci saluta con questa frase, che lo caratterizza: “Piuttosto che lavorare la terra molle, è meglio stare a casa a fare il folle”. Il riassunto migliore per questo vignaiolo che con passione e determinazione porta avanti le tradizioni passategli dal nonno Sandro. Perché Roero significa dedizione, territorio e fatica. Un connubio che sicuramente porterà ad apprezzare questo territorio che sta emergendo sempre più, anno dopo anno, regalandoci dei vini che parlano la lingua di questi tenaci vignaioli.

Terre dei Gaia, i custodi della viticoltura di montagna

Un punto di riferimento per l’agricoltura eroica e sostenibile

di Marta Pavan

È ormai lontano quel 24 febbraio del 1518, quando in Valbelluna fu consolidata l’importanza della viticoltura. In quella data Gerolamo Borgasio emanò “Lo Statuto dei Vignaioli del Monte Aurin”. Questo decreto aveva l’onere di tutelare le pratiche agronomiche per ottenere solo uve di qualità ed inoltre stabiliva la data di inizio vendemmia, ossia il 29 settembre. Pensare che una volta i boschi lasciavano spazio alle vigne, si vendemmiava praticamente da ottobre in poi e con l’abbondante presenza della neve ci fa sorridere. Oggi purtroppo non è più così, la storia ha voltato le spalle alla viticoltura nel bellunese. Molti vignaioli hanno abbandonato i loro vigneti e ora solo i più temerari portano avanti le tradizioni. In queste aree montane non è facile coltivare e lavorare la terra, nella maggior parte dei casi le lavorazioni vengono fatte tutte a mano, fra pendenze, neve e freddo durante l’inverno. Si parla così di viticoltura eroica, dura e tradizionale.

Siamo andati ad incontrare uno di questi viticoltori, Claudio Polesana, titolare della cantina Terre dei Gaia a Feltre. L’azienda è nata nel 2014, copre una superficie vitata di 3,2 ettari, divisi in ventiquattro appezzamenti. Le varietà autoctone coltivate sono bianchetta e pavana, a cui si aggiungono chardonnay, pinot noir e le resistenti. Le bottiglie annualmente prodotte sono ventimila. Prima di iniziare il viaggio all’interno dell’azienda il nostro vignaiolo ci racconta del perché ha deciso di intraprendere questa strada: “Sono nato a Mugnai, da sempre terra di tenaci vignaioli. Terre dei Gaia è un omaggio a mio bisnonno: Nani Gaia. Questa è la sua eredità, il regalo più grande che potesse fare alla nostra famiglia: l’amore per la terra, per la vite ed i suoi frutti”.  

Abbiamo così iniziato la degustazione dei vini di Terre dei Gaia, autentici e diretti come il loro produttore.

“Jantelagen” 2018, un rifermentato in bottiglia da bianchetta in purezza. Per avere una maggiore estrazione le uve sostano sulle bucce per sette/dodici giorni, vinificazione e maturazione vengono effettuate in vasche di acciaio. Questo vino si presenta di colore giallo paglierino intenso, con note fruttate di mela gialla, noce moscata e fiori di acacia, avvolte dalla tostatura di caffè e mandorla. Al sorso è fresco e vibrante, con un’ottima vena minerale conferita dal terreno.

“Cilèt” 2018, un bianco ottenuto unicamente da uve bianchetta. Di colore giallo paglierino brillante, troviamo un vino dai sentori fruttati di pesca e pera, floreali di gelsomino ed erbe di montagna con una leggera nota minerale. La vinificazione e la maturazione avvengono in vasche di acciaio. All’assaggio questo bianco si rivela di buona freschezza e mineralità, con un finale finemente fruttato. Un vino morbido, delicato che racchiude la storicità di questo vitigno, che nelle zone del feltrino è denominato “bianchetta gentile di Fonzaso”.

“Radiosa Aurora” 2018, da uve 100% pavana un rifermentato in bottiglia che ci racconta di questa terra. Dal colore rosa tenue, questo rosato si ottiene procedendo con la vinificazione in bianco di questo vitigno autoctono a bacca rossa. Vinificazione e maturazione anche in questo caso avvengono in acciaio. Il vino si esprime con sentori fruttati di piccoli frutti di sottobosco, in particolare con la fragolina, accompagnati da una nota resinosa e da una leggera ossidazione che si manifesta con lo sherry. In bocca troviamo un rifermentato vivace, con una bella acidità che ben si sposa con i tannini, e richiama il bosco e la montagna ad ogni sorso.

“Crode rosse” 2018, da pavana in purezza, abbiamo un rosso rubino con riflessi porpora. La fermentazione avviene in acciaio, con affinamento in cemento per un anno e un anno in bottiglia. Il vino spicca con note fruttate della frutta di sottobosco, anche qui con prevalenza della fragolina (profumo tipico di quest’uva), spalleggiata dalla violetta e da un delicato aroma speziato. Al palato esplode la freschezza, ben in equilibrio coi tannini, il tutto avvolto da un’ottima mineralità. Un rosso che parla la lingua di queste terre e ne fa da custode.

Senza dubbio Terre dei Gaia è diventata un punto di riferimento per l’agricoltura sostenibile in queste zone. Infatti tutta l’azienda è condotta a regime biologico, con un orientamento verso la biodinamica; sono coltivati un orto sinergico e sul Monte Grappa le erbe officinali, dalle quali poi con vinacce e vinaccioli dalle uve, nascono dei prodotti di cosmesi. Inoltre il nostro viticoltore si occupa anche di diverse arnie da cui poi ricava il prezioso miele. Insomma un’azienda agricola dal sapore contadino di un tempo, con l’obiettivo “di poter raccogliere un fiore e mangiare un grappolo di uva, come facevamo i nostri nonni”, in queste parole è racchiusa la filosofia di vita di Claudio.  Terminata la visita in cantina siamo andati a Frassenè di Fonzaso, dove sono situati gran parte dei “loch” in dialetto locale appezzamenti. In questa stagione dell’anno ci siamo trovati immersi in un paesaggio fiabesco, in una piccola valle incastonata fra i boschi e le montagne, coperta da mezzo metro di neve. Passeggiando fra le vigne abbiamo toccato con mano come sia duro il lavoro per questi viticoltori, tutto viene curato a mano, con passione e dedizione. Tutte le strutture di sostegno delle piante sono in legno; il motivo è funzionale, in quanto durante la stagione invernale capitano frane o valanghe e con l’elasticità conferita da questo materiale le viti che vengono travolte possono poi essere recuperate, cosa che non potrebbe avvenire con strutture in cemento o acciaio. I piccoli vignaioli della Valbelluna non sempre hanno vita facile, e spesso queste terre sono preda delle grandi cantine, che vedono nel bellunese una nuova risorsa visti i cambiamenti climatici. È ormai da qualche anno che si stanno piantando sempre più ettari a glera, a discapito delle varietà autoctone. Ci auguriamo che i produttori locali alzino la voce e non permettano che tecnicismo ed omogeneizzazione si impadroniscano anche delle Dolomiti, terreni ancora liberi, vergini e privi di monoculture industriali. 

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