Mi mancano da morire le chiacchiere da bar

di Walter Cogotti, Oste a “Il Chiosco” in Padova

Il mio lavoro mi ha portato a sentirne di tutti i colori. Quella pedana dietro il banco che ti rialza di qualche centimetro rispetto ai clienti spesso ti consegna anche il superpotere dell’ invisibilità e il cliente chiacchiera con gli altri avventori come se tu, oste da un quintale di peso, non esistessi. Non rivelerò mai le cose private che ho sentito raccontare o che mi sono state raccontate direttamente, mi sento come un prete laico dietro la grata di un confessionale, mi porterò nella tomba i vostri segreti non preoccupatevi.

A volte però, per fortuna, i racconti non sono così privati e il dono dell’invisibilita’ ti da comunque la possibilità di sentire dei racconti di vita meravigliosi e affascinanti, sentiti nella posizione del semplice uditore invisibile che si può fare un’opinione senza per forza dover dire la sua sulle cose. Essere invisibili e muti aiuta a crearsi un’opinione sui “cazzi” degli altri e sulle cose della vita. Tra le cose non private da poter raccontare in questo periodo di navi di traverso mi sono venuti in mente due racconti sentiti tanti anni fa. Due episodi simili per conseguenze, due naufragi in barca a vela.

Il primo raccontato al bar ad un amico davanti a un bicchiere di vino da uno skipper sulla sessantina che, insieme alla sua compagna, intraprendono una traversata oceanica, sogno di una vita tenuto nel cassetto fino al momento della pensione. In mezzo all’oceano, ammesso che l’oceano abbia un mezzo, la barca dei due viene rovesciata da una collisione con una balena.

Il secondo episodio avvenuto ad anni di distanza raccontato, questa volta, ad alta voce a una platea più ampia nello stesso bar da un’altro skipper più giovane che vede come protagonista della collisione invece un container semi affondato che porta alle stesse conseguenze. Il secondo episodio lo avevo quasi rimosso dalla memoria, troppo caciarone e sensazionalistico nell’esposizione del protagonista forse per rimanere vivo nella mia testa , ma in periodo di navi di traverso alte sessanta metri mi è tornato in mente. Un container disperso nel mare da uno di quei mastodonti galleggianti e una balena puzzolente. Così la descrive al bar il protagonista:

“prima della collisione ho sentito una puzza incredibile, le balene sono tremendamente puzzolenti”. Sulla vicenda Suez ci si interroga sulle responsabilità. Colpa di una tempesta di sabbia o piuttosto di un errore umano nella manovra? L’oste grasso e invisibile questa volta vorrebbe dire la sua. Si tratta senza dubbio di un errore umano e l’errore sta a monte nel poter pensare di far navigare delle navi di quelle dimensioni pensando solo al profitto tralasciando le conseguenze che questa scelta può portare.Il coronavirus è veramente causato da un pipistrello? O si tratta piuttosto di un errore umano? Non parlo di errori di laboratorio ma piuttosto della spinta alla globalizzazione che porta a scelte rischiose, molto rischiose.Teniamoci nel cuore i racconti fatti sottovoce di balene puzzolenti.

Pensiamo ai bar che chiusi non possono stare.

Foto di Gianni Umicini

Val de Pol, il Pinot Noir delle Dolomiti

“La piccola Borgogna” della Valbelluna

di Marta Pavan

Continuando il nostro viaggio alla scoperta della Valbelluna siamo andati a trovare Katja Zanon, titolare della cantina Val de Pol, a Codenzano, piccola frazione di Chies d’Alpago. In queste zone un tempo la viticoltura era molto diffusa, poi i paesi hanno iniziato a spopolarsi ed ora sono pochi i vignaioli che tenacemente continuano a produrre vino.  Katja è una donna coraggiosa perché ha deciso per scelta personale di piantare e coltivare solo pinot noir. Questa decisione non è stata facile, in molti all’inizio le avevano detto che probabilmente non sarebbe riuscita a portare niente in produzione, ma lei non curante e con duro lavoro riesce a regalarci dei vini che richiamano la Borgogna e sono prodotti a in provincia di Belluno.  Il terreno in queste zone presenta calcare, marne ed argilla in percentuali abbastanza omogenee ed una parte ciotolosa. Il clima è favorevole, e quindi perché non osare qualcosa di diverso? Il coraggio di questa produttrice è stato ampiamente premiato. La sua produzione è iniziata nel 2012, è limitata a poche bottiglie e conduce in regime biologico tre ettari di vigna; tutti coltivati a pinot noir. Questa piccola realtà ha in programma una nuova cantina per ampliare la produzione ed arrivare alle diecimila bottiglie. Per i trattamenti in vigna si utilizzano rame e zolfo, l’apporto organico viene fatto con letame proveniente da animali della zona allevati al pascolo e si cerca di arrivare a maturazione con un carico di circa due kg per pianta per la linea base e di un kg per le cru.  Il pinot noir è ormai in voga, ma non è per moda che la nostra vignaiola ha deciso di intraprendere questa strada, bensì per passione e per cercare di valorizzare e preservare la viticoltura di nicchia di queste aree. Citando e sue parole: “Produco vino in queste terre perché le amo e credo nelle possibilità di questo bellissimo e sorprendente territorio”. 

Questo vitigno come ben sappiamo è molto delicato, necessita di cura e attenzioni costanti, specialmente in vigna. Katja non dispone di un trattore, e lavora tutti i suoi appezzamenti a mano. Un lavoro che richiede tempo ed energie, ma che poi è ben ripagato una volta che l’uva arriva in cantina. Dopo un’estenuante selezione dei grappoli solo gli acini più sani ed in perfette condizioni giungono alla vinificazione. Ed è da qui che parte il nostro viaggio all’interno di questa realtà che ci lascia veramente sorpresi. I vigneti si trovano a cinquecento sessanta metri sul livello del mare, su un terreno molto fragile, come la varietà coltivata. Al giorno d’oggi le frane stanno diventando sempre più frequenti e si stanno manifestando eventi atmosferici che un tempo non c’erano. Un altro esempio sono le gelate tardive che colpiscono questi luoghi in primavera. Un cambiamento positivo è la presenza, da qualche anno, di una ventilazione costante, che aiuta a mantenere i grappoli sani a maturazione.   La cantina è molto piccola, poco più di una stanza, e una volta entrati si respira fin da subito aria di Borgogna. Vi sono una piccola vasca di acciaio e un paio di barriques di rovere francese dalla val della Loira. Katja produce una linea base e due cru, chiamate vigna Corletta e Monte Santo. Per queste ultime va in vinificazione con l’acino intero, la macerazione è di circa un mese, con due o tre follature al giorno. Una volta terminato il contatto con le bucce travasa il vino in barriques in cui affina per dieci mesi e conclude con un minimo di otto/dodici mesi di maturazione finale in bottiglia.  

Siamo andati ad assaggiare la linea base ancora in vasca d’acciao. 

“Pinot nero Còrs” IGT delle Dolomiti. La parola Còrs deriva dal nome dialettale delle stratificazioni di pietra presenti nel suolo. Nel bicchiere ci troviamo davanti ad un vino dal colore rosso rubino luminoso, non inteso, tipico della varietà. Al naso si esprime con profumi di frutta di sottobosco, come fragolina, lampone ribes avvolti dalle delicate note floreali di violetta. Al sorso il tannino è fine e vi è un’ottima acidità. Ci troviamo di fronte ad un pinot dinamico e in movimento, molto delicato ed elegante, che ci lascia la curiosità di assaggiarlo una volta terminato l’affinamento.  I vini di Katja si distinguono senza dubbio per personalità, eleganza e coraggio. Il coraggio di sperimentare, ma soprattutto di credere in un progetto ambizioso. Un’azienda di nicchia che lavora seguendo e rispettando i ritmi della natura, e che ci fa sognare una “piccola Borgogna” in Valbelluna. Ci auguriamo che la nostra produttrice possa essere un esempio da seguire per la rivalorizzazione di queste terre che hanno sicuramente molto da raccontarci. 

Alberto Oggero, innovazione continua in Roero

Sperimentazione come parola chiave per vini veri ed autentici

di Marta Pavan

Il nostro viaggio alla scoperta del Roero continua e non con poche sorprese. Abbiamo già raccontato la bellezza di questo territorio sulla sponda sinistra del Tanaro ed oggi siamo andati a trovare Alberto Oggero, cofondatore dell’Associazione SoloRoero con le aziende Valfaccenda e Cascina Fornace. Ci troviamo di fronte ad un giovane produttore che fin dal 2003 inizia le sue sperimentazione per capire come non doveva produrre il suo vino. Sembra strano, ma molte volte per riuscire a trovare la propria strada ed ottenere un prodotto di qualità che possieda un’anima bisogna imparare cosa non ci piace e vogliamo evitare. In questo periodo, fino al 2009, il nostro produttore cerca di capire qual è la sua filosofia e che trama vorrà usare per condurre i suoi vini. Nel 2010 Alberto apre la sua azienda con un’iniziale produzione annua di circa cinquecento bottiglie fino ad arrivare alle ventimila di oggi divise in cinque etichette. La superficie vitata copre cinque ettari, su dodici in totale, di cui i restanti rimangono a bosco. I vigneti sono coltivati seguendo il regime biologico, con trattamenti di rame, zolfo e propoli. Il nostro produttore ci racconta che investe molto nella gestione del suolo, con l’utilizzo delle erbe mediche, per apportare sostanze organiche e contrastare l’erosione del terreno vista la conformazione sabbiosa. La cascina dove Alberto vive e ha sviluppato la sua azienda è del 1860, coltiva nebbiolo ed arneis, varietà autoctone della zona; il vitigno a bacca bianca non ha una storicità importante, infatti veniva piantato qua e là fra le viti di nebbiolo. L’idea di produrre un vino bianco è nata con uno scopo commerciale verso la fine degli anni ’70. Con l’arrivo dei primi supporti tecnologici nelle cantine durante gli anni ’90 l’arneis ha trovato la sua fortuna, con una produzione omologata e tecnica. Il nostro vignaiolo ci racconta che le bottiglie venivano lanciate nel mercato a Natale della stessa vendemmia, cosa che succede ancora oggi. Alberto si discosta da questo stile, e ci presenta la sua visione di vino bianco; così abbiamo iniziato la nostra degustazione.

“Roero” 2019, da arneis in purezza, frutto di vigne diverse, la prima meglio esposta e le uve che derivano sostano cinque giorni sulle bucce per avere un’estrazione ottimale, una volta svinato, il vino passa in botte grande di rovere da trenta ettolitri e qui svolge la malolattica. Con le restanti la vinificazione e l’affinamento avvengono in acciaio senza macerazione; in tarda primavera le due diverse masse sono unite e l’imbottigliamento avviene in estate. Il risultato finale è un bianco dai sentori ben fruttati e floreali di gelsomino e acacia, un rinfrescante richiamo salino e una nota burrosa. In bocca è croccante e di buona struttura conferita dall’ottima presenta dei tannini ben integrati ed in equilibrio con l’acidità, un ottimo bianco fresco e di personalità.

L’annata 2019 è uscita a gennaio 2021, e ci racconta che il vino ha bisogno di tempo, altri aspetti innovativi dei vini della cantina Oggero sono la macerazione e la fermentazione malolattica, che per i bianchi tecnici ed omologati sono inconcepibili.

“Valle dei Lunghi” 2019, da uve 100% arneis. Questo vino è un chiaro esempio di innovazione e sperimentazione. La macerazione è di dodici giorni a cui poi segue la maturazione in cemento. Al naso troviamo un bianco con profumi di frutta matura, con la mela gialla, avvolta dalle note di resina e miele di castagno. Al sorso è ben sapido ed acido, persistente e di ottimo corpo. Una nuova espressione dell’arneis, fuori dagli schemi e con un’anima che vuole andare contro il tecnicismo e l’omologazione che ha caratterizzato questo vitigno per anni.

“Sandro” 2019, ci siamo spostati verso il nebbiolo. Iniziando con un rosso introduttivo. Il nome del vino è dedicato al nonno di Alberto. L’idea è quella di rappresentare il territorio, la vigna è chiamata San Michele, su terreno 66% sabbioso. Le uve sostano sulle bucce per cinque giorni a cui poi segue l’affinamento in cemento, senza passaggio in legno. L’obiettivo è regalare un vino che possa stare sulla tavola tutti i giorni, con una buona beva. Si esprime con note fruttate di ciliegia e floreali di viola e rosa canina. Al sorso è divertente, allegro, con un’ottima freschezza. Un vino che dove lo metti sta, meglio se con un buon salame.

“Roero classico” 2018, ottenuto da uve nebbiolo di una singola vigna di trent’anni, denominata Le coste ed esposta a sud. In questo caso la macerazione è di venti giorni per esaltare il profilo aromatico del vino, poi la maturazione di dodici/quattordici mesi avviene in legno e dona un’ottima struttura. Al naso si presenta con note fruttate di frutta rossa, violetta, spalleggiate dalle spezie. Un vino vivace, fresco e sapido. Un ottimo esempio di nebbiolo del Roero che richiama il territorio.

“Roero riserva” 2016, da uve 100% nebbiolo, provenienti dalla vigna Anime di ottant’anni, con esposizione sud-ovest, situata in un piccolo anfiteatro naturale che raccoglie molto bene il calore. Il suolo è sabbioso, le radici delle viti sono molto profonde e difficilmente le piante soffrono di stress idrico. Questo vino al naso è molto fine ed elegante con ciliegia e prugna avvolte dalla violetta, alle quali si accostano le delicate note speziate di tabacco, cannella e pelle. A completare il tutto si aggiunge la tostatura conferita dal legno con la vaniglia. In bocca è dinamico, vivo, con un tannino vellutato che con l’acidità lo tiene in movimento. Un rosso che esalta il terroir, frutto di duro lavoro dalla vigna alla bottiglia.

Il nostro viaggio all’interno della cantina Oggero è terminato. Alberto ci saluta con questa frase, che lo caratterizza: “Piuttosto che lavorare la terra molle, è meglio stare a casa a fare il folle”. Il riassunto migliore per questo vignaiolo che con passione e determinazione porta avanti le tradizioni passategli dal nonno Sandro. Perché Roero significa dedizione, territorio e fatica. Un connubio che sicuramente porterà ad apprezzare questo territorio che sta emergendo sempre più, anno dopo anno, regalandoci dei vini che parlano la lingua di questi tenaci vignaioli.

Terre dei Gaia, i custodi della viticoltura di montagna

Un punto di riferimento per l’agricoltura eroica e sostenibile

di Marta Pavan

È ormai lontano quel 24 febbraio del 1518, quando in Valbelluna fu consolidata l’importanza della viticoltura. In quella data Gerolamo Borgasio emanò “Lo Statuto dei Vignaioli del Monte Aurin”. Questo decreto aveva l’onere di tutelare le pratiche agronomiche per ottenere solo uve di qualità ed inoltre stabiliva la data di inizio vendemmia, ossia il 29 settembre. Pensare che una volta i boschi lasciavano spazio alle vigne, si vendemmiava praticamente da ottobre in poi e con l’abbondante presenza della neve ci fa sorridere. Oggi purtroppo non è più così, la storia ha voltato le spalle alla viticoltura nel bellunese. Molti vignaioli hanno abbandonato i loro vigneti e ora solo i più temerari portano avanti le tradizioni. In queste aree montane non è facile coltivare e lavorare la terra, nella maggior parte dei casi le lavorazioni vengono fatte tutte a mano, fra pendenze, neve e freddo durante l’inverno. Si parla così di viticoltura eroica, dura e tradizionale.

Siamo andati ad incontrare uno di questi viticoltori, Claudio Polesana, titolare della cantina Terre dei Gaia a Feltre. L’azienda è nata nel 2014, copre una superficie vitata di 3,2 ettari, divisi in ventiquattro appezzamenti. Le varietà autoctone coltivate sono bianchetta e pavana, a cui si aggiungono chardonnay, pinot noir e le resistenti. Le bottiglie annualmente prodotte sono ventimila. Prima di iniziare il viaggio all’interno dell’azienda il nostro vignaiolo ci racconta del perché ha deciso di intraprendere questa strada: “Sono nato a Mugnai, da sempre terra di tenaci vignaioli. Terre dei Gaia è un omaggio a mio bisnonno: Nani Gaia. Questa è la sua eredità, il regalo più grande che potesse fare alla nostra famiglia: l’amore per la terra, per la vite ed i suoi frutti”.  

Abbiamo così iniziato la degustazione dei vini di Terre dei Gaia, autentici e diretti come il loro produttore.

“Jantelagen” 2018, un rifermentato in bottiglia da bianchetta in purezza. Per avere una maggiore estrazione le uve sostano sulle bucce per sette/dodici giorni, vinificazione e maturazione vengono effettuate in vasche di acciaio. Questo vino si presenta di colore giallo paglierino intenso, con note fruttate di mela gialla, noce moscata e fiori di acacia, avvolte dalla tostatura di caffè e mandorla. Al sorso è fresco e vibrante, con un’ottima vena minerale conferita dal terreno.

“Cilèt” 2018, un bianco ottenuto unicamente da uve bianchetta. Di colore giallo paglierino brillante, troviamo un vino dai sentori fruttati di pesca e pera, floreali di gelsomino ed erbe di montagna con una leggera nota minerale. La vinificazione e la maturazione avvengono in vasche di acciaio. All’assaggio questo bianco si rivela di buona freschezza e mineralità, con un finale finemente fruttato. Un vino morbido, delicato che racchiude la storicità di questo vitigno, che nelle zone del feltrino è denominato “bianchetta gentile di Fonzaso”.

“Radiosa Aurora” 2018, da uve 100% pavana un rifermentato in bottiglia che ci racconta di questa terra. Dal colore rosa tenue, questo rosato si ottiene procedendo con la vinificazione in bianco di questo vitigno autoctono a bacca rossa. Vinificazione e maturazione anche in questo caso avvengono in acciaio. Il vino si esprime con sentori fruttati di piccoli frutti di sottobosco, in particolare con la fragolina, accompagnati da una nota resinosa e da una leggera ossidazione che si manifesta con lo sherry. In bocca troviamo un rifermentato vivace, con una bella acidità che ben si sposa con i tannini, e richiama il bosco e la montagna ad ogni sorso.

“Crode rosse” 2018, da pavana in purezza, abbiamo un rosso rubino con riflessi porpora. La fermentazione avviene in acciaio, con affinamento in cemento per un anno e un anno in bottiglia. Il vino spicca con note fruttate della frutta di sottobosco, anche qui con prevalenza della fragolina (profumo tipico di quest’uva), spalleggiata dalla violetta e da un delicato aroma speziato. Al palato esplode la freschezza, ben in equilibrio coi tannini, il tutto avvolto da un’ottima mineralità. Un rosso che parla la lingua di queste terre e ne fa da custode.

Senza dubbio Terre dei Gaia è diventata un punto di riferimento per l’agricoltura sostenibile in queste zone. Infatti tutta l’azienda è condotta a regime biologico, con un orientamento verso la biodinamica; sono coltivati un orto sinergico e sul Monte Grappa le erbe officinali, dalle quali poi con vinacce e vinaccioli dalle uve, nascono dei prodotti di cosmesi. Inoltre il nostro viticoltore si occupa anche di diverse arnie da cui poi ricava il prezioso miele. Insomma un’azienda agricola dal sapore contadino di un tempo, con l’obiettivo “di poter raccogliere un fiore e mangiare un grappolo di uva, come facevamo i nostri nonni”, in queste parole è racchiusa la filosofia di vita di Claudio.  Terminata la visita in cantina siamo andati a Frassenè di Fonzaso, dove sono situati gran parte dei “loch” in dialetto locale appezzamenti. In questa stagione dell’anno ci siamo trovati immersi in un paesaggio fiabesco, in una piccola valle incastonata fra i boschi e le montagne, coperta da mezzo metro di neve. Passeggiando fra le vigne abbiamo toccato con mano come sia duro il lavoro per questi viticoltori, tutto viene curato a mano, con passione e dedizione. Tutte le strutture di sostegno delle piante sono in legno; il motivo è funzionale, in quanto durante la stagione invernale capitano frane o valanghe e con l’elasticità conferita da questo materiale le viti che vengono travolte possono poi essere recuperate, cosa che non potrebbe avvenire con strutture in cemento o acciaio. I piccoli vignaioli della Valbelluna non sempre hanno vita facile, e spesso queste terre sono preda delle grandi cantine, che vedono nel bellunese una nuova risorsa visti i cambiamenti climatici. È ormai da qualche anno che si stanno piantando sempre più ettari a glera, a discapito delle varietà autoctone. Ci auguriamo che i produttori locali alzino la voce e non permettano che tecnicismo ed omogeneizzazione si impadroniscano anche delle Dolomiti, terreni ancora liberi, vergini e privi di monoculture industriali. 

Filippo De Martin, espressione indipendente delle Dolomiti

di Marta Pavan

 Poco si sa dei vini delle Dolomiti venete, eppure un tempo le zone del feltrino e del bellunese erano ricche di vigne, si pensa che la superficie vitata in queste aree coprisse ben mille ettari. Storicamente tutta la produzione che ne seguiva era destinata alla corte degli Asburgo, quindi queste zone erano considerate “un’estensione dell’Austria”. La storia ha poi preso una strada diversa, e nel secondo dopoguerra la viticoltura di montagna ha iniziato pian piano a diminuire, la gente andava in città a cercare lavoro, le fabbriche “svuotavano” le campagne e i borghi montani. Fortunatamente nell’ultimo decennio, da Feltre ad Alpago, è rinata la consapevolezza e la voglia di produrre vini che rispecchiano il territorio dolomitico. 

Così nel cuore di queste terre, in Valbelluna a San Gregorio nelle Alpi, siamo andati a trovare Filippo De Martin, giovane produttore vitivinicolo. La sua storia non ha radici nel mondo del vino, infatti Filippo faceva tutt’altro, era un restauratore. Questo lavoro l’ha comunque spinto a recuperare un casolare e a piantare le prime vigne. Siamo nel 2011, anno in cui nasce la sua azienda agricola ai piedi del monte Pizzocco. Col passare degli anni sono stati aggiunti nuovi impianti con lo scopo di recuperare vecchie varietà locali, quali pavana, gata, turca, paialonga, bianchetta e altri vitigni alloctoni. Nel 2015 sono state piantate le varietà resistenti bronner e solaris, che non necessitano di trattamenti. La produzione annuale di bottiglie si aggira intorno alle cinquemilaottocento. 

La filosofia del nostro vignaiolo è quella di coltivare le proprie vigne naturalmente, senza l’utilizzo della chimica; si limita ad un massimo di due-tre trattamenti all’anno con rame e zolfo, solo se strettamente necessari. Ogni intervento è svolto a mano, nel pieno rispetto della natura; i terreni sono sfalciati manualmente da decenni e concimati solo col letame. Lavorare in queste zone non è sicuramente facile, bisogna difendersi anche da dei nemici inusuali: gli uccelli. Le sue vigne infatti sono protette da delle reti, posizionate appositamente per proteggere gli acini che diventano una ghiotta preda per i volatili. Inoltre sotto le viti cresce un famoso fagiolo locale che il nostro produttore ci mostra orgogliosamente; è denominato Fumolet, storica varietà della Valbelluna, che prende il nome dal suo colore grigio fumo.

Filippo ci riassume il suo lavoro con questa frase: “Siamo il frutto di un pensiero nato attorno all’idea di produrre vino nelle Dolomiti Bellunesi, territori vergini, per certi versi ancora liberi da monoculture industriali”. Così affascinati dal panorama coperto dalla neve e da tanta curiosità abbiamo degustato i vini. 

“Bolla ballerina”, una nuova sperimentazione volta alla valorizzazione delle varietà locali. Infatti in questo vino troviamo un 60% di pavana, gata, turca, bianchetta, paialonga e altri vitigni alloctoni, queste uve provengono da tre vigneti situati nei comuni di Arsiè e Fonzaso, con un’età media di cinquant’anni; il restante 40% a varietà bronner proviene da vigne coltivate in località Pascoli, nell’alta Valbelluna. Le uve bianche e rosse sono state vinificate assieme, per la fermentazione sono stati utilizzati lieviti indigeni, e l’affinamento avviene in vasche di acciaio. Per la rifermentazione in bottiglia è utilizzato il proprio mosto e l’aggiunta di solforosa è di 30 mg/l. Al naso questa bolla si esprime con note fruttate di mela cotta, agrumi e sottile la fragolina di bosco conferita dalla pavana, il tutto avvolto dalle erbe di montagna. Al sorso eccelle la freschezza, tipica del terreno calcareo e dell’altitudine, che con la mineralità richiamano la roccia delle Dolomiti nel bicchiere. Un rifermentato energico, brillante e di ottima personalità.

“Case lunghe”, da bronner in purezza; le vigne sono situate a San Gregorio nelle Alpi, ad un’altezza di cinquecento metri. Frutto di vendemmia tardiva, a cui poi segue una macerazione sulle bucce di un giorno. Anche in questo caso fermentazione da lieviti indigeni e affinamento in vasche di acciaio. Questo bianco rimane sui propri lieviti fino all’imbottigliamento che avviene all’incirca a luglio. Il vino si presenta intenso con sentori di mela gialla, agrumi, una delicata nota di miele e le erbe di montagna. In bocca rivela un’acidità vivace, spalleggiata da un’ottima mineralità, che rimanda al territorio ad ogni sorso e conclude con una nota agrumata. Un bianco delicato ed elegante, con una trama verticale che lo tiene vivo. 

Ci troviamo davanti ad un produttore indipendente che sa portare ciò che la natura offre in vigna in ogni sua bottiglia. I vini di Filippo sono un’ode al terroir di cui sono figli. Un’espressione vera e autentica della viticoltura e dei vini di montagna; esuberanti, dinamici, con una freschezza tagliente e una mineralità rocciosa. Un ottimo esempio di valorizzazione e salvaguardia di un territorio come quello dolomitico che ha ancora tante sorprese da rivelarci. 

Bisson, i segreti del mare

Quando dagli abissi emerge un vino

di Marta Pavan

Pierluigi Lugano è uno dei pionieri della produzione vitivinicola della Riviera ligure di Levante. I suoi primi vini risalgono al 1978, anno in cui nasce la sua azienda, originariamente a Chiavari. Lo scorso anno è stata inaugurata la nuova cantina a Sestri Levante. Il principio su cui si erge l’azienda è la valorizzazione dei vitigni autoctoni locali, infatti in passato in questa zona le singole varietà non venivano tenute in considerazione, ma si producevano dei vini con un blend di diverse uve bianche e rosse. Le uve si distribuiscono in sette vigne differenti per in totale di quindici ettari con una produzione annua di centotrentamila bottiglie. Per i bianchi troviamo la bianchetta genovese che storicamente è la varietà più datata della Liguria, coltivata fin dai tempi dei romani; il ben noto vermentino e il pigato. Negli ultimi dieci anni l’azienda ha piantato anche lo cimixià che in dialetto genovese significa “cimiciato”, in quanto in fase di allegagione sulla buccia dell’acino si sviluppano una serie di macchie nere che richiamano la puntura della cimice. Quest’uva regala dei vini aromatici, con un buon colore, strutturati e con un grado alcolico anche di quattordici gradi. Le varietà a bacca rossa invece non sono storicamente originarie della Liguria, ma sono arrivate in questa terra grazie agli scambi commerciali e sono il ciliegiolo, proveniente dalla Toscana; la barbera e il dolcetto dal Piemonte (coltivati a Pornassio) arrivati tramite la via del sale ed infine la granaccia.

La conduzione dei vitigni rispetta una rigorosa limitazione dell’utilizzo dei fitofarmaci, a garanzia di qualità e genuinità. Il prodotto di punta della cantina Bisson è sicuramente l’Abissi, prodotto in tre diverse categorie: spumante Abissi, Abissi riserva ed Abissi rosè. Nel primo caso ci troviamo di fronte ad un metodo classico, da uve 60% bianchetta genovese per conferire mineralità e leggerezza, 30% vermentino per dare maggior struttura e 10% cimixià. Il tempo di affinamento sui lieviti è di diciotto mesi, di cui dodici sott’acqua. Per la riserva la differenza è il periodo di sosta sui lieviti che è di trentasei mesi di cui ventiquattro in acqua. Nell’ultimo caso invece vengono utilizzati ciliegiolo e granaccia vinificati in rosato, con affinamento sui lieviti di ventiquattro mesi di cui dodici sott’acqua.

L’idea di questo spumante è nata da Pierluigi Lugano, vignaiolo, pescatore e professore di arte che ha cercato di unire le sue passioni in un’unica bottiglia. Negli ultimi vent’anni nel Mediterraneo sono state ritrovate diverse galee romane dedite al trasporto di olio e vino nelle anfore. In queste ultime, in alcuni casi, i prodotti al loro interno erano ancora parzialmente conservati. Da qui la domanda, si può produrre un vino negli abissi del mare?

Il luogo scelto per l’immersione è la baia Del Silenzio a Sestri Levante, ad una profondità di sessanta metri, in cui ci sono quindici gradi costanti e sei bar di pressione. Le bottiglie sono chiuse con tappo a corona in acciaio inossidabile a cui è aggiunta una plastica termostatica che impedisce l’usura dell’acciaio e il contatto diretto con l’acqua del mare. Una volta all’anno si vanno a posare le casse: quando se ne posiziona una nuova si “pesca” l’annata precedente. Quando poi ritornano in cantina le bottiglie vengono asciugate, ma in maniera che tutto ciò che si è depositato su esse rimanga come decorazione, come ad esempio le stelle marine, i granchi o i coralli e per fissarli alla bottiglia questa viene avvolta con una plastica termostatica. Effettuata infine la sboccatura per eliminare i lieviti, si ricolma solo con spumante abissi. Quest’idea nasce con l’obiettivo di lasciare che la maturazione del vino avvenga naturalmente, senza l’intervento invasivo dell’uomo. Finita la visita della cantina siamo andati a degustare il tanto atteso Abissi.

“Spumante Abissi” 2016, da bianchetta genovese, vermentino e cimixià. Un metodo classico color giallo paglierino brillante con riflessi verdastri; bolla piccola, fine e persistente. Al naso si presenta con un bouquet che spazia fra la mela cotta e le erbe mediterranee come salvia e rosmarino. L’equilibrio di questo vino è orientato sulle durezze, con una buona freschezza ed un’ottima mineralità.

“Bianchetta U Pastine” 2018, da bianchetta genovese in purezza. Un bianco color giallo paglierino vivace; delicato con sentori di fiori bianchi, mela verde e limone. Un vino secco, sapido, che richiama il mare ad ogni sorso, con una buona acidità. Molto tecnico e lineare.

Terminata la degustazione non siamo del tutto appagati e ci rendiamo conto che manca qualcosa. Sicuramente la peculiarità di quest’azienda è la produzione del famoso spumante, un’attrattiva invitante che crea aspettative, ma che poi si rivela una scelta commerciale e in certo senso contraddittoria. Se da un lato c’è la voglia di valorizzare e recuperare i vitigni autoctoni, da un altro ci troviamo davanti a dei vini tecnici, puliti, fin troppi perfetti, senza una minima sbavatura che ne denota un’anima. Una piattezza che non ne sminuisce sicuramente la qualità produttiva, ma che ci lascia a bocca asciutta e un po’ vuoti dentro, perché infondo incontrare un vino è sempre un momento unico e se le emozioni non parlano ci sarà sempre un distacco formale che ci farà dire: “Questo vino è noioso”.

Le sfumature di verde dei Vignaioli Indipendenti Trevigiani

Verso la metà degli anni novanta, seguivo i DTV Dodici Tonalità di Verde, un gruppo underground locale. Un nome ispirato alla canzone “verde” di Federico Fiumani leader dei Diaframma. Mi piaceva la spontaneità di quel gruppo, tecnicamente forse non di altissimo livello, ma capace di donare energia e credibilità. Al di la del percorso musicale del gruppo ricordo di essermi soffermato sull’idea delle dodici tonalità di verde e di come ciascuna di queste sfumature potesse avere una storia a se. Quando ho saputo del progetto “sfumature di verde” gestito da Forcoop Cora Venezia con i Vignaioli Indipendenti Trevigiani non ho potuto fare a meno di pensare a quel momento e a quelle riflessioni tutto sommato giovanili.

Essere vignaiola o vignaiolo significa gestire le varie sfumature di verde attorno a se e alla propria famiglia. Non vuol dire solo coltivare la terra per ottenere dei prodotti ma piuttosto prendersi cura di un luogo, custodirlo e donare molto di più di ciò che si può raccogliere. Obiettivo del progetto “Sfumature di Verde” è stato quindi quello di legare l’impegno dei viticoltori verso un prodotto e una produzione più sostenibile e “verde” anche per dare sviluppo al settore enoturistico che vede una crescente domanda.

A chiusura del progetto “Sfumature di Verde” ha avuto luogo un evento on line di degustazione in collaborazione con Vignaioli Trevigiani FIVI. La degustazione ha rappresentato il punto di arrivo del progetto “Sfumature di Verde”: una ventina di vignaioli, aderenti all’associazione Vignaioli Indipendenti Trevigiani FIVI (https://www.vignaiolitreviso.com/).

La degustazione on line ha visto protagonisti cinque produttori VIT con altrettanti vini espressione delle proprie terre ma anche specchio della ricerca che ciascuno di questi produttori conduce quotidianamente. Una degustazione insolita ma che si adatta alle esigenze di questi tempi. Presenti alla degustazione molti dei collaboratori veneti della Guida Slow Wine e, collegato da Bologna, Fabio Giavedoni che con Giancarlo Gariglio è il curatore nazionale della guida. Presenti anche molti sommelier FISAR e AIS e collaboratori di varie testate specializzate nel settore vino.

A condurre la degustazione Gianpaolo Giacobbo e Patrizia Loiola a rappresentare Forcoop Cora Venezia. Le cinque aziende che hanno partecipato alla degustazione in rappresentanza dei  Vignaioli Treviso erano: Case Paolin, Loredan Gasparin, Moret Vini, Graziano Sanzovo, Bellese Vini. I vini presentati sono stati quelli che in qualche modo rappresentano una strada diversa o per lo meno che portano con un’espressività non dichiarata.

Il Prosecco Colfondo Codolà di Graziano Sanzovo rappresenta la tradizione del vino di Valdobbiadene. Il vino che sa mettersi a nudo con orgoglio e che non ha bisogno di orpelli per mettersi in mostra. Diretto essenziale e frutto di questa terra. Alla vista si presenta torbido per sua natura e genesi al naso dopo un iniziale momento di introspezione si lascia andare a sensazioni fresche quasi balsamiche, floreali eteree. Al palato è sapido e asciutto con una bollicina cremosa e sottile che invoglia la sorsata abbondante.

Mirco di Case Paolin ha portato Pietra Fine 2019 un sorprendente Extra Brut Charmat lungo di nove mesi capace di esprimere con forza la sassosità di una zona non ancora esplorata ai piedi del Monte Grappa a Cavaso del Tomba per l’esattezza su terreno in superficie grasso ma che nella profondità ha buona presenza di calcare. Bollicina fine elegantissima naso tratteggiato piccole pennellate assestate bene con note agrumate, glicine, timo di montagna. Al palato convince per equilbrio gustativo la scelta del tenore di zucchero che tende a zero è quanto mai centrata. Bella la progressione gustativa e la verticalità espressa.

Di Marco Moret di Moret Vini abbiamo potuto letteralmente godere di questo Incrocio manzoni 13.0.25 che già si era messo in mostra durante una visita in azienda. Marco è un vignaiolo a cui piacciono le sfide ma che ha la grande sensibilità di conservare l’identità territoriale a dispetto delle mode che molto influenzano le zone in cui vive. Questo incrocio Manzoni è un rifermentato rosè che vede il Moscato d’Amburgo e il Raboso del Piave uniti in un unico vitigno. Vino dallo spettro aromatico ben definito nella direzione floreale dei petali di rosa ma anche agrumato di pompelmo rosa e spezie. Al palato è piacevolissimo gustoso succoso e polposo.

Con Desirée Bellese Pascon, tra l’altro presidentessa dei Vignaioli Indipendenti Trevigiani, abbiamo avuto la possibilità di parlare della belussera. Un impianto tipico della zona del Piave che sta oramai vedendo l’estinzione. Si tratta di una tecnica di coltivazione ideata dai fratelli Belussi a fine 800 che vedeva  la vite disposta ad altezze di quasi quattro metri. Una tecnica tesa ad evitare il problema della peronospora senza l’utilizzo di prodotti esogeni. Vini Bellese produce Glera e naturalmente Raboso su questi vecchi impianti. Abbiamo assaggiato il Raboso Frizzante, una versione spensierata e fresca di questa varietà dai caratteri generalmente duri. Razza Piave! Vino fresco, fruttato piacevole al palato grazie non solo al pizzicore della carbonica ma anche al giusto equilibrio da sapidità e acidità. Godibilissimo non si smetterebbe mai di bere.

Lorenzo Palla di Loredan Gasparin ha chiuso in bellezza questa degustazione che minuto dopo minuto ha acquisto una fisionomia inaspettata. Il loro  Della Casa 2016 dimostra già al colore la sua identità. Entra in scena il classicismo. Loredan Gasparin è sempre stato fedele alla sua storia in un mondo che cercava la propria identità a destra e a manca. Lo dimostra questo vino dal fare sicuro. Un porto sicuro da approdo dove tutto è definito con eleganza. Cabernet franc, merlo, cabernet sauvignon e malbec. Equilbrio perfetto. Naso di profondità con note frutta matura, tabacco biondo e liquirizia. Più il tempo passa e più si dona ma sempre con toni misurati a ritmo cadenzato. Saporito al palato, setato piacevole, lascia un eco di se continuo.

Fontanacota: nel cuore di Pornassio

Alla scoperta di un rosso che nasce fra le valli delle Alpi Marittime 

di Marta Pavan

Fra le valli delle Alpi Liguri in provincia di Imperia, trova la sua fortuna la DOC di Pornassio. Qui fra paesaggi incontaminati, strade impervie e piccoli paesini quasi disabitati abbiamo fatto visita ai fratelli Fabio e Marina Berta, titolari della cantina Fontanacota a Ponti di Pornassio, in valle Arroscia. La tradizione vitivinicola della famiglia non nasce fra queste montagne, ma nell’entroterra della valle Prino nella località di Fontanacota, che ha successivamente dato il nome all’azienda. Qui tutt’oggi troviamo i vigneti di proprietà coltivati a vermentino, pigato, rossese e granaccia. Il famoso ormeasco, o dolcetto in Piemonte, è invece coltivato a seicento metri di altezza nel cuore della denominazione Ormeasco di Pornassio. 

L’azienda nata nel 2001, conta sei ettari con una produzione annua di quarantamila bottiglie. La conduzione delle vigne segue il principio della lotta integrata, ossia si cerca di ridurre al minimo necessario gli interventi coi prodotti chimici, i fitofarmaci sono usati solo in caso di necessità, mentre non vengono utilizzati i diserbanti. Inoltre è praticata la tecnica del sovescio; in autunno sono piantati orzo e favino fra i filari, poi a primavera quando queste erbe hanno raggiunto l’apice vegetativo, si interrano i primi centimetri di biomassa. Con questa operazione si garantisce più sostanza organica e microelementi al terreno, si aumenta il controllo delle erbe infestanti, della biodiversità e si favorisce la presenza di insetti utili in vigneto. 

Abbiamo iniziato la nostra degustazione partendo dal vermentino.

“Vermentino” 2019, un bianco tipico ligure, pulito, tecnico e diretto. Al naso emerge la frutta a polpa bianca, soprattutto la mela ancora acerba e i fiori bianchi di acacia. Il colore è giallo paglierino con riflessi verdastri. Ottima la sapidità che ricorda il mare, spalleggiata da una buona acidità. le vigne di vermentino si trovano su terreni calcarei a sessanta metri sul livello del mare. 

Siamo poi passati al tanto atteso Ormeasco, iniziando da un rosato.

“Sciac-trà” 2019, da uve 100% ormeasco, vinificato in rosato. Il nome del vino in italiano significa letteralmente “schiaccia e tira” riferito al processo di vinificazione, ossia pressa e poi svina. Infatti per ottenere questo rosè il mosto dopo la pressatura viene subito sgrondato. Così si ottiene un colore rosa corallo con riflessi confetto. Nella tradizione questo vino veniva bevuto a Natale della vendemmia e le vinacce che si ottenevano erano usate per dare più struttura e corpo ad altri vini. Al naso troviamo un rosato con note di ciliegia, un po’ di vegetale accompagnati dalla frutta di sottobosco. Un vino armonico ed avvolgente ottimo da abbinare alla tipica farinata ligure o al pesce. 

“Ormeasco di Pornassio” 2019, da ormeasco in purezza. Un rosso che segue la vinificazione tradizionale, ossia una macerazione di pochi giorni per ottenere un colore rosso rubino con riflessi porpora ed un equilibrato livello di estrazione. L’affinamento è di dodici mesi in acciaio. Al naso spicca la frutta rossa con lampone e fragolina di bosco, con una leggera nota speziata. In bocca molto vinoso e di buon corpo. Il tannino non è invasivo ed è esaltato dall’acidità. La freschezza è data dal territorio, infatti queste vigne si trovano a seicento metri di altezza in valle Arroscia su terreni calcarei. 

La storia di quest’uva ha origini storiche radicate nel tempo. Infatti il vitigno dolcetto è stato anticamente importato dal Piemonte nel tredicesimo secolo. In Liguria, vista l’altitudine in cui è coltivato, regala dei vini con maggior acidità e vinosità rispetto a quelli piemontesi.  Attraversando in macchina queste valli ci si rende conto del potenziale di questa terra che però è abbandonata a sé stessa. I produttori sono soli in un paesaggio desolato, i paesi si stanno spopolando e sorge un dubbio spontaneo, chi continuerà a produrre questo vino in futuro?                                   La viticultura è la principale attività di questi luoghi, che col cambiamento climatico potrebbero diventare un’enorme risorsa. In provincia di Belluno e sul Monte Amiata in Toscana stiamo già vedendo dei viticoltori che si stanno spostando sempre più “in alto”. È comunque un peccato notare come una denominazione che dà valore al proprio territorio trasmetta una tristezza velata e silenziosa; quello che ci si augura è che la tenacia e la determinazione dei produttori li spingano ad alzare la voce perché una zona come Pornassio ha tanto ancora da poterci raccontare. 

Le Fraghe, il riscatto del Bardolino

Le Fraghe, con le fragole rinasce anche un vino

di Marta Pavan

Bardolino è una denominazione ben nota, si trova in provincia di Verona, a sud-est del Lago di Garda. Meta famosa per il turismo ha visto l’inizio del suo declino agli albori degli anni ’90. Capire il perché non è mai facile. Nel secolo scorso nella zona si viveva di turismo, e quindi l’attività del vignaiolo non è mai stata preponderante. Nella vicina Valpolicella invece si è visto il fenomeno opposto, i turisti non c’erano e quindi si è investito molto sulle attività vitivinicole. Col passare degli anni il Bardolino ha iniziato a cadere nel dimenticatoio, ed è a questo punto che Matilde Poggi ha deciso di prendere in mano le redini della situazione per ridare dignità alla sua terra.

La cantina Le Fraghe nasce nel 1984, dal 2009 è certificata biologica e ad oggi conta trenta ettari coltivati a corvina e rondinella per i rossi e garganega, dal 1992, per i bianchi. L’obiettivo della nostra vignaiola è quello di attenersi al territorio, cercando di portare in ogni bicchiere ciò che offrono le sue vigne. La sua filosofia è quella di un ritorno alla tradizione. Le varietà sono le stesse della famosa Valpolicella, ma la vera differenza la fanno i suoli qui molto minerali. La terra può quindi, in un certo senso, annullare il varietale.

Con queste premesse ci siamo immersi nella degustazione dei vini di Matilde, iniziando dai rosati. La zona del Bardolino infatti è la prima in Italia per la produzione di questa tipologia di vino, che qui prende il nome di Chiaretto.

“Chiaretto” 2019, da uve corvina e rondinella. Quest’annata è stata abbastanza fresca e quindi si ha un’acidità sostenuta. Al naso il vino si presenta con note floreali di rosa e fragoline di bosco. La tecnica di produzione è quella del salasso, ossia un contatto di sei ore con le bucce e poi il 30% del mosto è svinato e procede con la vinificazione in bianco. Il colore è brillante. Il tannino è morbido e ben si accompagna ad una buona mineralità. Prima dell’imbottigliamento viene aggiunta la bentonite per prevenire la precipitazione delle proteine che porterebbero alla torbidità in bottiglia.

“Chiaretto” 2018, rosato da uve corvina e rondinella, più evoluto e strutturato del precedente con un’ottima brillantezza e buona freschezza. La tecnica di produzione è sempre quella del salasso, per cercare di ottenere un’estrazione ottimale e un colore vivace. Vino delicato con sentori di rosa e ribes, il tannino è ben bilanciato da un’ottima mineralità.

Questi vini così come i bianchi hanno un potenziale ossidativo molto alto, quindi dal 2012 Matilde ha deciso di adottare una chiusura con tappo a vite, ermetico che non fa respirare, così vengono preservate brillantezza e freschezza.

La nostra degustazione è proseguita col tanto atteso Bardolino.

“Bardolino” 2019, rosso da corvina e rondinella, la sosta sulle bucce è di circa 7/8 giorni per un’estrazione ottimale. Il colore è scarico, tipico delle varietà. Vino delicato al naso con sentore di amarena e a sorpresa le note speziate che di solito emergono con l’evoluzione. I tannini sono leggeri, infatti corvina e rondinella hanno un basso contenuto tannico. Ottima l’acidità, figlia di un’annata fresca.

Matilde ci ha presentato altre tre annate di Bardolino, ma provenienti da un unico vigneto, il “Brol Grande”. Questa vigna si trova vicino al monte Moscal, offre diverse esposizioni e regala vini eleganti e raffinati. La vinificazione a parte è iniziata dal 2011.

“Brol Grande Bardolino” 2018, questo primo vino si presenta un po’ statico e denota che deve ancora evolvere. L’acidità è buona e il tannino morbido. Al naso prevale la parte fruttata e le note speziate sono ancora sotto tono. Questo rosso è stato affinato solo in cemento.

“Brol Grande Bardolino” 2013, rosso elegante ed armonico, forti e avvolgenti i sentori speziati di cannella e pepe nero che sono ben accompagnati dalle note di frutta di sottobosco. Il tannino si fa sentire, ma è comunque in equilibrio e non stona, ottima la mineralità. Questo vino ha fatto l’affinamento in botte di legno.

“Brol Grande Bardolino” 2016, concludiamo il nostro viaggio nella cantina Le Fraghe con un ultimo Bardolino. Ci troviamo di fronte ad un vino con una forte personalità che ci sorprende. Al naso si presenta molto fine con una nota balsamica che si va ad aggiungere a quella fruttata e speziata. Il 2016 è stata un’annata generosa, con giorni caldi e notti fredde in fase di maturazione, un ottimo connubio per ottenere dei vini eleganti e raffinati. La mineralità tipica di questi suoli è ottima e lavora bene con un tannino morbido. Un vino che si fa bere ad ogni sorso.   In dialetto veronese la parola “fraghe” significa “fragole”, e dopo quattro anni dalla conversione al biologico fra i filari di Matilde sono cresciute le fragoline selvatiche. Ci auguriamo che con la nascita di questo frutto possa rinascere anche il Bardolino, un vino gentile e delicato che può stare sulla tavola tutti i giorni. Perché il ruolo del vignaiolo infondo è questo: far bere il buon vino ogni giorno

Valfaccenda, espressione autentica del Roero

Soggettività e territorialità si incontrano in un unico bicchiere

di Marta Pavan

La cantina Valfaccenda nasce nel 2010 a Canale in provincia di Cuneo, nel cuore del Roero. Questa zona di produzione vitivinicola ha una storia millenaria, ma solo negli ultimi anni ha preso consapevolezza. Il confronto con le Langhe è sempre stato molto pesante e, in passato, c’era da parte dei produttori, l’idea di scimmiottare il più famoso Barolo con risultati poco convincenti. I vini spesso erano pesanti con forti sentori di legno, e lontani dal territorio di origine. Nell’ultimo periodo invece c’è una presa di coscienza maggiore del proprio territorio. Non si tratta di meglio o peggio ma un territorio con caratteristiche diverse e con tutta la sua personalità. I produttori, soprattutto le nuove generazioni, stanno iniziando a nobilitare i due vitigni tipici della zona, ossia nebbiolo ed arneis, senza copiare lo stile di produzione langhino. Dal 2016 è stata introdotta nella denominazione Roero la zonizzazione, e dall’anno successivo si è iniziato a produrre anche i vini riserva.

Con queste prospettive Carolina e Luca hanno dato vita a Valfaccenda, cercando di trasmettere, attraverso i loro vini, il territorio e i suoi vitigni. L’azienda si estende su quattro ettari con una produzione annua di ventiduemila bottiglie. La loro filosofia è di cercare la soggettività in ogni vino, soprattutto per quanto riguarda i bianchi. Infatti l’arneis è ormai snaturato ed omologato poiché per circa il 30/35% va sul mercato a Natale della stessa vendemmia. Le colline di questa zona sono piccole, ripide e regalano diverse esposizioni alle vigne, inoltre sono caratterizzate dalle cosiddette “sabbie astiane” che offrono dei vini sapidi, acidi e croccanti. Una volta terminato un piccolo tour della cantina siamo passati alla degustazione dei vini, partendo dai rossi.

“Vindabeive” 2019, da uve 100% nebbiolo. Il nome significa in italiano “vino da bere”, ossia che può stare sulla tavola di casa ogni giorno. È stato prodotto per la prima volta nel 2014, dai vitigni più giovani e poveri che confinano con un bosco. La bottiglia è da un litro e la chiusura è col tappo a corona, per richiamare la tradizione contadina. La vendemmia di queste vigne inizia subito dopo quella dell’arneis, quindi due settimane prima rispetto agli altri rossi. Il tannino rimane verde, si fa una macerazione semi-carbonica di tre/quattro giorni sulle bucce con uva intera. La fermentazione è spontanea e avviene o in cemento o in acciaio. Questo vino, pronto da bere, è imbottigliato il trenta novembre dell’anno della vendemmia. Ci troviamo davanti ad un bicchiere leggero, spensierato che si fa bere ad ogni sorso.

“Valfaccenda” 2018, anche questo rosso è prodotto da nebbiolo in purezza e porta la denominazione DOCG Roero. La fermentazione è sempre spontanea ed in questo caso, la macerazione sulle bucce è di quindici/venti giorni. L’affinamento avviene per un anno in legno di rovere, in botte grande, e poi finisce con un altro anno in bottiglia. Al naso spicca l’amarena, accompagnata dalla viola e da una nota di pelle. Il tannino è soffice e morbido. Un rosso delicato e molto fine.

“Valmaggiore” 2017, rosso riserva Roero DOCG. Da nebbiolo in purezza, ma le uve provengono da una singola vigna, piantata nel 1947 a Valmaggiore. La vinificazione segue le stesse fasi del vino precedente, la differenza è il tempo di affinamento che per la riserva è di un anno in legno di rovere e due anni in bottiglia. Al naso arriva la frutta rossa con un sentore speziato di cannella e pepe nero. Il tannino è ben bilanciato, un rosso elegante e con ottima beva.  

Tutti i vini sono naturali, in vigna si pratica la viticoltura biologica e viste le pendenze delle colline la maggior parte delle lavorazioni vengono fatte a mano. Per concludere il nostro viaggio all’interno di Valfaccenda abbiamo degustato i bianchi.

“Valfaccenda” 2019, da uve 100% arneis. Al naso sentori di frutta fresca, quali mela verde e limone, spalleggiati da una nota burrosa dovuta alla fermentazione malolattica. Per questo vino le uve sono raccolte in tre momenti diversi e di queste il 30% fanno una macerazione sulle bucce di circa dieci giorni, per evitare un’estrazione troppo spinta. Freschezza e sapidità sono buone, con un buon supporto tannico.

“Loreto” 2018, bianco riserva da arneis in purezza. Molto elegante con note di fiori di sambuco, frutta bianca e gelsomino. Il nome Loreto deriva dalla sottozona, ed è frutto della vendemmia di una sola vigna. In questo caso non è stata fatta la macerazione sulle bucce e per l’affinamento in legno è stata usata l’acacia, più porosa e rilascia meno tannino rispetto al rovere. Anche questo vino ha fatto la malolattica, che conferisce più corpo. Per l’invecchiamento la riserva fa un anno in legno e uno in bottiglia. Ci troviamo di fronte ad un arneis con personalità, fresco, sapido e molto armonico.

Valfaccenda certamente è una realtà giovane, ma si sta già distinguendo per la personalità forte dei suoi vini. Per i bianchi non è volutamente messo in etichetta il nome della varietà, perché l’obiettivo è quello di trasmettere il Roero, non il vitigno.

Luca ci saluta con questa frase:

“Per noi il vino esiste come naturale conseguenza del territorio che lo accoglie, come risultato di un lavoro meditato in vigna e in cantina.”

Sito web creato con WordPress.com.

Su ↑