Le sfumature di verde dei Vignaioli Indipendenti Trevigiani

Verso la metà degli anni novanta, seguivo i DTV Dodici Tonalità di Verde, un gruppo underground locale. Un nome ispirato alla canzone “verde” di Federico Fiumani leader dei Diaframma. Mi piaceva la spontaneità di quel gruppo, tecnicamente forse non di altissimo livello, ma capace di donare energia e credibilità. Al di la del percorso musicale del gruppo ricordo di essermi soffermato sull’idea delle dodici tonalità di verde e di come ciascuna di queste sfumature potesse avere una storia a se. Quando ho saputo del progetto “sfumature di verde” gestito da Forcoop Cora Venezia con i Vignaioli Indipendenti Trevigiani non ho potuto fare a meno di pensare a quel momento e a quelle riflessioni tutto sommato giovanili.

Essere vignaiola o vignaiolo significa gestire le varie sfumature di verde attorno a se e alla propria famiglia. Non vuol dire solo coltivare la terra per ottenere dei prodotti ma piuttosto prendersi cura di un luogo, custodirlo e donare molto di più di ciò che si può raccogliere. Obiettivo del progetto “Sfumature di Verde” è stato quindi quello di legare l’impegno dei viticoltori verso un prodotto e una produzione più sostenibile e “verde” anche per dare sviluppo al settore enoturistico che vede una crescente domanda.

A chiusura del progetto “Sfumature di Verde” ha avuto luogo un evento on line di degustazione in collaborazione con Vignaioli Trevigiani FIVI. La degustazione ha rappresentato il punto di arrivo del progetto “Sfumature di Verde”: una ventina di vignaioli, aderenti all’associazione Vignaioli Indipendenti Trevigiani FIVI (https://www.vignaiolitreviso.com/).

La degustazione on line ha visto protagonisti cinque produttori VIT con altrettanti vini espressione delle proprie terre ma anche specchio della ricerca che ciascuno di questi produttori conduce quotidianamente. Una degustazione insolita ma che si adatta alle esigenze di questi tempi. Presenti alla degustazione molti dei collaboratori veneti della Guida Slow Wine e, collegato da Bologna, Fabio Giavedoni che con Giancarlo Gariglio è il curatore nazionale della guida. Presenti anche molti sommelier FISAR e AIS e collaboratori di varie testate specializzate nel settore vino.

A condurre la degustazione Gianpaolo Giacobbo e Patrizia Loiola a rappresentare Forcoop Cora Venezia. Le cinque aziende che hanno partecipato alla degustazione in rappresentanza dei  Vignaioli Treviso erano: Case Paolin, Loredan Gasparin, Moret Vini, Graziano Sanzovo, Bellese Vini. I vini presentati sono stati quelli che in qualche modo rappresentano una strada diversa o per lo meno che portano con un’espressività non dichiarata.

Il Prosecco Colfondo Codolà di Graziano Sanzovo rappresenta la tradizione del vino di Valdobbiadene. Il vino che sa mettersi a nudo con orgoglio e che non ha bisogno di orpelli per mettersi in mostra. Diretto essenziale e frutto di questa terra. Alla vista si presenta torbido per sua natura e genesi al naso dopo un iniziale momento di introspezione si lascia andare a sensazioni fresche quasi balsamiche, floreali eteree. Al palato è sapido e asciutto con una bollicina cremosa e sottile che invoglia la sorsata abbondante.

Mirco di Case Paolin ha portato Pietra Fine 2019 un sorprendente Extra Brut Charmat lungo di nove mesi capace di esprimere con forza la sassosità di una zona non ancora esplorata ai piedi del Monte Grappa a Cavaso del Tomba per l’esattezza su terreno in superficie grasso ma che nella profondità ha buona presenza di calcare. Bollicina fine elegantissima naso tratteggiato piccole pennellate assestate bene con note agrumate, glicine, timo di montagna. Al palato convince per equilbrio gustativo la scelta del tenore di zucchero che tende a zero è quanto mai centrata. Bella la progressione gustativa e la verticalità espressa.

Di Marco Moret di Moret Vini abbiamo potuto letteralmente godere di questo Incrocio manzoni 13.0.25 che già si era messo in mostra durante una visita in azienda. Marco è un vignaiolo a cui piacciono le sfide ma che ha la grande sensibilità di conservare l’identità territoriale a dispetto delle mode che molto influenzano le zone in cui vive. Questo incrocio Manzoni è un rifermentato rosè che vede il Moscato d’Amburgo e il Raboso del Piave uniti in un unico vitigno. Vino dallo spettro aromatico ben definito nella direzione floreale dei petali di rosa ma anche agrumato di pompelmo rosa e spezie. Al palato è piacevolissimo gustoso succoso e polposo.

Con Desirée Bellese Pascon, tra l’altro presidentessa dei Vignaioli Indipendenti Trevigiani, abbiamo avuto la possibilità di parlare della belussera. Un impianto tipico della zona del Piave che sta oramai vedendo l’estinzione. Si tratta di una tecnica di coltivazione ideata dai fratelli Belussi a fine 800 che vedeva  la vite disposta ad altezze di quasi quattro metri. Una tecnica tesa ad evitare il problema della peronospora senza l’utilizzo di prodotti esogeni. Vini Bellese produce Glera e naturalmente Raboso su questi vecchi impianti. Abbiamo assaggiato il Raboso Frizzante, una versione spensierata e fresca di questa varietà dai caratteri generalmente duri. Razza Piave! Vino fresco, fruttato piacevole al palato grazie non solo al pizzicore della carbonica ma anche al giusto equilibrio da sapidità e acidità. Godibilissimo non si smetterebbe mai di bere.

Lorenzo Palla di Loredan Gasparin ha chiuso in bellezza questa degustazione che minuto dopo minuto ha acquisto una fisionomia inaspettata. Il loro  Della Casa 2016 dimostra già al colore la sua identità. Entra in scena il classicismo. Loredan Gasparin è sempre stato fedele alla sua storia in un mondo che cercava la propria identità a destra e a manca. Lo dimostra questo vino dal fare sicuro. Un porto sicuro da approdo dove tutto è definito con eleganza. Cabernet franc, merlo, cabernet sauvignon e malbec. Equilbrio perfetto. Naso di profondità con note frutta matura, tabacco biondo e liquirizia. Più il tempo passa e più si dona ma sempre con toni misurati a ritmo cadenzato. Saporito al palato, setato piacevole, lascia un eco di se continuo.

Fontanacota: nel cuore di Pornassio

Alla scoperta di un rosso che nasce fra le valli delle Alpi Marittime 

di Marta Pavan

Fra le valli delle Alpi Liguri in provincia di Imperia, trova la sua fortuna la DOC di Pornassio. Qui fra paesaggi incontaminati, strade impervie e piccoli paesini quasi disabitati abbiamo fatto visita ai fratelli Fabio e Marina Berta, titolari della cantina Fontanacota a Ponti di Pornassio, in valle Arroscia. La tradizione vitivinicola della famiglia non nasce fra queste montagne, ma nell’entroterra della valle Prino nella località di Fontanacota, che ha successivamente dato il nome all’azienda. Qui tutt’oggi troviamo i vigneti di proprietà coltivati a vermentino, pigato, rossese e granaccia. Il famoso ormeasco, o dolcetto in Piemonte, è invece coltivato a seicento metri di altezza nel cuore della denominazione Ormeasco di Pornassio. 

L’azienda nata nel 2001, conta sei ettari con una produzione annua di quarantamila bottiglie. La conduzione delle vigne segue il principio della lotta integrata, ossia si cerca di ridurre al minimo necessario gli interventi coi prodotti chimici, i fitofarmaci sono usati solo in caso di necessità, mentre non vengono utilizzati i diserbanti. Inoltre è praticata la tecnica del sovescio; in autunno sono piantati orzo e favino fra i filari, poi a primavera quando queste erbe hanno raggiunto l’apice vegetativo, si interrano i primi centimetri di biomassa. Con questa operazione si garantisce più sostanza organica e microelementi al terreno, si aumenta il controllo delle erbe infestanti, della biodiversità e si favorisce la presenza di insetti utili in vigneto. 

Abbiamo iniziato la nostra degustazione partendo dal vermentino.

“Vermentino” 2019, un bianco tipico ligure, pulito, tecnico e diretto. Al naso emerge la frutta a polpa bianca, soprattutto la mela ancora acerba e i fiori bianchi di acacia. Il colore è giallo paglierino con riflessi verdastri. Ottima la sapidità che ricorda il mare, spalleggiata da una buona acidità. le vigne di vermentino si trovano su terreni calcarei a sessanta metri sul livello del mare. 

Siamo poi passati al tanto atteso Ormeasco, iniziando da un rosato.

“Sciac-trà” 2019, da uve 100% ormeasco, vinificato in rosato. Il nome del vino in italiano significa letteralmente “schiaccia e tira” riferito al processo di vinificazione, ossia pressa e poi svina. Infatti per ottenere questo rosè il mosto dopo la pressatura viene subito sgrondato. Così si ottiene un colore rosa corallo con riflessi confetto. Nella tradizione questo vino veniva bevuto a Natale della vendemmia e le vinacce che si ottenevano erano usate per dare più struttura e corpo ad altri vini. Al naso troviamo un rosato con note di ciliegia, un po’ di vegetale accompagnati dalla frutta di sottobosco. Un vino armonico ed avvolgente ottimo da abbinare alla tipica farinata ligure o al pesce. 

“Ormeasco di Pornassio” 2019, da ormeasco in purezza. Un rosso che segue la vinificazione tradizionale, ossia una macerazione di pochi giorni per ottenere un colore rosso rubino con riflessi porpora ed un equilibrato livello di estrazione. L’affinamento è di dodici mesi in acciaio. Al naso spicca la frutta rossa con lampone e fragolina di bosco, con una leggera nota speziata. In bocca molto vinoso e di buon corpo. Il tannino non è invasivo ed è esaltato dall’acidità. La freschezza è data dal territorio, infatti queste vigne si trovano a seicento metri di altezza in valle Arroscia su terreni calcarei. 

La storia di quest’uva ha origini storiche radicate nel tempo. Infatti il vitigno dolcetto è stato anticamente importato dal Piemonte nel tredicesimo secolo. In Liguria, vista l’altitudine in cui è coltivato, regala dei vini con maggior acidità e vinosità rispetto a quelli piemontesi.  Attraversando in macchina queste valli ci si rende conto del potenziale di questa terra che però è abbandonata a sé stessa. I produttori sono soli in un paesaggio desolato, i paesi si stanno spopolando e sorge un dubbio spontaneo, chi continuerà a produrre questo vino in futuro?                                   La viticultura è la principale attività di questi luoghi, che col cambiamento climatico potrebbero diventare un’enorme risorsa. In provincia di Belluno e sul Monte Amiata in Toscana stiamo già vedendo dei viticoltori che si stanno spostando sempre più “in alto”. È comunque un peccato notare come una denominazione che dà valore al proprio territorio trasmetta una tristezza velata e silenziosa; quello che ci si augura è che la tenacia e la determinazione dei produttori li spingano ad alzare la voce perché una zona come Pornassio ha tanto ancora da poterci raccontare. 

Le Fraghe, il riscatto del Bardolino

Le Fraghe, con le fragole rinasce anche un vino

di Marta Pavan

Bardolino è una denominazione ben nota, si trova in provincia di Verona, a sud-est del Lago di Garda. Meta famosa per il turismo ha visto l’inizio del suo declino agli albori degli anni ’90. Capire il perché non è mai facile. Nel secolo scorso nella zona si viveva di turismo, e quindi l’attività del vignaiolo non è mai stata preponderante. Nella vicina Valpolicella invece si è visto il fenomeno opposto, i turisti non c’erano e quindi si è investito molto sulle attività vitivinicole. Col passare degli anni il Bardolino ha iniziato a cadere nel dimenticatoio, ed è a questo punto che Matilde Poggi ha deciso di prendere in mano le redini della situazione per ridare dignità alla sua terra.

La cantina Le Fraghe nasce nel 1984, dal 2009 è certificata biologica e ad oggi conta trenta ettari coltivati a corvina e rondinella per i rossi e garganega, dal 1992, per i bianchi. L’obiettivo della nostra vignaiola è quello di attenersi al territorio, cercando di portare in ogni bicchiere ciò che offrono le sue vigne. La sua filosofia è quella di un ritorno alla tradizione. Le varietà sono le stesse della famosa Valpolicella, ma la vera differenza la fanno i suoli qui molto minerali. La terra può quindi, in un certo senso, annullare il varietale.

Con queste premesse ci siamo immersi nella degustazione dei vini di Matilde, iniziando dai rosati. La zona del Bardolino infatti è la prima in Italia per la produzione di questa tipologia di vino, che qui prende il nome di Chiaretto.

“Chiaretto” 2019, da uve corvina e rondinella. Quest’annata è stata abbastanza fresca e quindi si ha un’acidità sostenuta. Al naso il vino si presenta con note floreali di rosa e fragoline di bosco. La tecnica di produzione è quella del salasso, ossia un contatto di sei ore con le bucce e poi il 30% del mosto è svinato e procede con la vinificazione in bianco. Il colore è brillante. Il tannino è morbido e ben si accompagna ad una buona mineralità. Prima dell’imbottigliamento viene aggiunta la bentonite per prevenire la precipitazione delle proteine che porterebbero alla torbidità in bottiglia.

“Chiaretto” 2018, rosato da uve corvina e rondinella, più evoluto e strutturato del precedente con un’ottima brillantezza e buona freschezza. La tecnica di produzione è sempre quella del salasso, per cercare di ottenere un’estrazione ottimale e un colore vivace. Vino delicato con sentori di rosa e ribes, il tannino è ben bilanciato da un’ottima mineralità.

Questi vini così come i bianchi hanno un potenziale ossidativo molto alto, quindi dal 2012 Matilde ha deciso di adottare una chiusura con tappo a vite, ermetico che non fa respirare, così vengono preservate brillantezza e freschezza.

La nostra degustazione è proseguita col tanto atteso Bardolino.

“Bardolino” 2019, rosso da corvina e rondinella, la sosta sulle bucce è di circa 7/8 giorni per un’estrazione ottimale. Il colore è scarico, tipico delle varietà. Vino delicato al naso con sentore di amarena e a sorpresa le note speziate che di solito emergono con l’evoluzione. I tannini sono leggeri, infatti corvina e rondinella hanno un basso contenuto tannico. Ottima l’acidità, figlia di un’annata fresca.

Matilde ci ha presentato altre tre annate di Bardolino, ma provenienti da un unico vigneto, il “Brol Grande”. Questa vigna si trova vicino al monte Moscal, offre diverse esposizioni e regala vini eleganti e raffinati. La vinificazione a parte è iniziata dal 2011.

“Brol Grande Bardolino” 2018, questo primo vino si presenta un po’ statico e denota che deve ancora evolvere. L’acidità è buona e il tannino morbido. Al naso prevale la parte fruttata e le note speziate sono ancora sotto tono. Questo rosso è stato affinato solo in cemento.

“Brol Grande Bardolino” 2013, rosso elegante ed armonico, forti e avvolgenti i sentori speziati di cannella e pepe nero che sono ben accompagnati dalle note di frutta di sottobosco. Il tannino si fa sentire, ma è comunque in equilibrio e non stona, ottima la mineralità. Questo vino ha fatto l’affinamento in botte di legno.

“Brol Grande Bardolino” 2016, concludiamo il nostro viaggio nella cantina Le Fraghe con un ultimo Bardolino. Ci troviamo di fronte ad un vino con una forte personalità che ci sorprende. Al naso si presenta molto fine con una nota balsamica che si va ad aggiungere a quella fruttata e speziata. Il 2016 è stata un’annata generosa, con giorni caldi e notti fredde in fase di maturazione, un ottimo connubio per ottenere dei vini eleganti e raffinati. La mineralità tipica di questi suoli è ottima e lavora bene con un tannino morbido. Un vino che si fa bere ad ogni sorso.   In dialetto veronese la parola “fraghe” significa “fragole”, e dopo quattro anni dalla conversione al biologico fra i filari di Matilde sono cresciute le fragoline selvatiche. Ci auguriamo che con la nascita di questo frutto possa rinascere anche il Bardolino, un vino gentile e delicato che può stare sulla tavola tutti i giorni. Perché il ruolo del vignaiolo infondo è questo: far bere il buon vino ogni giorno

Valfaccenda, espressione autentica del Roero

Soggettività e territorialità si incontrano in un unico bicchiere

di Marta Pavan

La cantina Valfaccenda nasce nel 2010 a Canale in provincia di Cuneo, nel cuore del Roero. Questa zona di produzione vitivinicola ha una storia millenaria, ma solo negli ultimi anni ha preso consapevolezza. Il confronto con le Langhe è sempre stato molto pesante e, in passato, c’era da parte dei produttori, l’idea di scimmiottare il più famoso Barolo con risultati poco convincenti. I vini spesso erano pesanti con forti sentori di legno, e lontani dal territorio di origine. Nell’ultimo periodo invece c’è una presa di coscienza maggiore del proprio territorio. Non si tratta di meglio o peggio ma un territorio con caratteristiche diverse e con tutta la sua personalità. I produttori, soprattutto le nuove generazioni, stanno iniziando a nobilitare i due vitigni tipici della zona, ossia nebbiolo ed arneis, senza copiare lo stile di produzione langhino. Dal 2016 è stata introdotta nella denominazione Roero la zonizzazione, e dall’anno successivo si è iniziato a produrre anche i vini riserva.

Con queste prospettive Carolina e Luca hanno dato vita a Valfaccenda, cercando di trasmettere, attraverso i loro vini, il territorio e i suoi vitigni. L’azienda si estende su quattro ettari con una produzione annua di ventiduemila bottiglie. La loro filosofia è di cercare la soggettività in ogni vino, soprattutto per quanto riguarda i bianchi. Infatti l’arneis è ormai snaturato ed omologato poiché per circa il 30/35% va sul mercato a Natale della stessa vendemmia. Le colline di questa zona sono piccole, ripide e regalano diverse esposizioni alle vigne, inoltre sono caratterizzate dalle cosiddette “sabbie astiane” che offrono dei vini sapidi, acidi e croccanti. Una volta terminato un piccolo tour della cantina siamo passati alla degustazione dei vini, partendo dai rossi.

“Vindabeive” 2019, da uve 100% nebbiolo. Il nome significa in italiano “vino da bere”, ossia che può stare sulla tavola di casa ogni giorno. È stato prodotto per la prima volta nel 2014, dai vitigni più giovani e poveri che confinano con un bosco. La bottiglia è da un litro e la chiusura è col tappo a corona, per richiamare la tradizione contadina. La vendemmia di queste vigne inizia subito dopo quella dell’arneis, quindi due settimane prima rispetto agli altri rossi. Il tannino rimane verde, si fa una macerazione semi-carbonica di tre/quattro giorni sulle bucce con uva intera. La fermentazione è spontanea e avviene o in cemento o in acciaio. Questo vino, pronto da bere, è imbottigliato il trenta novembre dell’anno della vendemmia. Ci troviamo davanti ad un bicchiere leggero, spensierato che si fa bere ad ogni sorso.

“Valfaccenda” 2018, anche questo rosso è prodotto da nebbiolo in purezza e porta la denominazione DOCG Roero. La fermentazione è sempre spontanea ed in questo caso, la macerazione sulle bucce è di quindici/venti giorni. L’affinamento avviene per un anno in legno di rovere, in botte grande, e poi finisce con un altro anno in bottiglia. Al naso spicca l’amarena, accompagnata dalla viola e da una nota di pelle. Il tannino è soffice e morbido. Un rosso delicato e molto fine.

“Valmaggiore” 2017, rosso riserva Roero DOCG. Da nebbiolo in purezza, ma le uve provengono da una singola vigna, piantata nel 1947 a Valmaggiore. La vinificazione segue le stesse fasi del vino precedente, la differenza è il tempo di affinamento che per la riserva è di un anno in legno di rovere e due anni in bottiglia. Al naso arriva la frutta rossa con un sentore speziato di cannella e pepe nero. Il tannino è ben bilanciato, un rosso elegante e con ottima beva.  

Tutti i vini sono naturali, in vigna si pratica la viticoltura biologica e viste le pendenze delle colline la maggior parte delle lavorazioni vengono fatte a mano. Per concludere il nostro viaggio all’interno di Valfaccenda abbiamo degustato i bianchi.

“Valfaccenda” 2019, da uve 100% arneis. Al naso sentori di frutta fresca, quali mela verde e limone, spalleggiati da una nota burrosa dovuta alla fermentazione malolattica. Per questo vino le uve sono raccolte in tre momenti diversi e di queste il 30% fanno una macerazione sulle bucce di circa dieci giorni, per evitare un’estrazione troppo spinta. Freschezza e sapidità sono buone, con un buon supporto tannico.

“Loreto” 2018, bianco riserva da arneis in purezza. Molto elegante con note di fiori di sambuco, frutta bianca e gelsomino. Il nome Loreto deriva dalla sottozona, ed è frutto della vendemmia di una sola vigna. In questo caso non è stata fatta la macerazione sulle bucce e per l’affinamento in legno è stata usata l’acacia, più porosa e rilascia meno tannino rispetto al rovere. Anche questo vino ha fatto la malolattica, che conferisce più corpo. Per l’invecchiamento la riserva fa un anno in legno e uno in bottiglia. Ci troviamo di fronte ad un arneis con personalità, fresco, sapido e molto armonico.

Valfaccenda certamente è una realtà giovane, ma si sta già distinguendo per la personalità forte dei suoi vini. Per i bianchi non è volutamente messo in etichetta il nome della varietà, perché l’obiettivo è quello di trasmettere il Roero, non il vitigno.

Luca ci saluta con questa frase:

“Per noi il vino esiste come naturale conseguenza del territorio che lo accoglie, come risultato di un lavoro meditato in vigna e in cantina.”

Le Rocche del Gatto, vini contro il sistema

“Il vermentino è un bravo solista, il pigato è un’orchestra e lo spigau è l’orchestra sinfonica” Fausto De Andreis

di Marta Pavan

In una regione come la Liguria ci vuole coraggio per andare controcorrente, per distinguersi dalla massa e per creare una propria identità. Non siamo infatti in una regione famosa per l’enoturismo come la Toscana o il Piemonte, e quindi andare contro il sistema comporta dei rischi sul mercato. Ad Albenga, nella Riviera ligure di Ponente, abbiamo incontrato Fausto De Andreis, il famoso “anarchico del pigato”. Nella sua cantina Le Rocche del Gatto ci specifica subito che non berremo il vino commerciale, da lui definito banale, ma un vino prodotto secondo i criteri e soprattutto l’etica di un tempo con l’aiuto non invasivo delle tecnologie dei giorni nostri. L’obiettivo è quello di rispettare la tradizione senza voltare le spalle alla tecnologia, che se usata con raziocinio non preclude la qualità del prodotto finale. Fausto ci spiega che i vini bianchi attuali sono prodotti con l’ottica di entrare subito nel mercato per accaparrarsi il maggior numero di clienti, perdendo così le caratterizzazioni tipiche della varietà e del terroir. Lui si discosta da tutto ciò e produce dei bianchi volti ad una potenziale evoluzione anche decennale.

Le fermentazioni sono condotte sulle bucce come un tempo, all’epoca però il vino si surriscaldava e quindi c’era molta ossidazione. Adesso invece col controllo della temperatura si riesce a raffreddare il pigiato e a condurre una fermentazione senza rischi ossidativi, inoltre il nostro vignaiolo utilizza anche l’azoto per lavorare in riduzione. La temperatura nelle vasche è portata intorno ai 17°C e la fermentazione dura all’incirca due settimane. Questo tipo di vinificazione è usato sia per i bianchi che per i rossi così da ottenere la maggior estrazione possibile di aromi primari e avere vini fruttati. In tutti i vini una volta terminata la fermentazione alcolica si ha anche la malolattica, per conferire più struttura, corpo e longevità. Inoltre al momento dell’imbottigliamento si usano i solfiti, con una quantità di circa 40 mg/l.  Tutte le lavorazioni sono fatte in vasche di acciaio e la produzione annua di bottiglie si aggira intorno alle cinquantamila. Abbiamo iniziato la nostra degustazione dalle vasche di pigato.

“Vasca pigato” 2018, forte la nota agrumata di pompelmo rosa che ben si accosta a quella burrosa e ad un leggero sentore di vegetale. Il tannino è morbido. Buona l’acidità e la sapidità.

“Vasca pigato” 2019, al naso una leggera nota ridotta, profumi di mela verde e sottile la crosta di pane; più vegetale del precedente. Vino giovane, con un tannino più invadente.

“Senza tempo” spigau 2011, da uve 100% pigato, 40% della vendemmia 2012 e 60% della 2011. Questo vino è stato chiarificato con l’obiettivo di rimuovere tutte le sostanze ossidabili, così da poter evolvere, da questo deriva il nome senza tempo. Al naso una leggera nota riduttiva, sentore di agrumi, miele e nocciola. Buona la mineralità e marcata la sapidità. L’acidità e i tannini delle bucce garantiscono la longevità per un’uva che normalmente non si è abituati ad invecchiare.

Senza tempo” spigau 2012, da pigato in purezza, 60% della vendemmia del 2012 e 40% della 2011. Anche questo vino è stato chiarificato al fine di evitare l’ossidazione. Il colore è ambrato. Sentori di pino mugo, resina e frutta gialla. Anche in questo caso i tannini sono ben bilanciati e con l’acidità vanno a conferire la longevità; ottima la sapidità tipica di questi territori.

Terminate queste vasche abbiamo realmente compreso le parole di Fausto, ogni vino ha le sue peculiarità e la sua storia da raccontare. È trasmessa con trasparenza l’ideologia del produttore, che  arrivato alla sua sessantottesima vendemmia non smette mai di stupire. Dopo i primi assaggi ci siamo immersi nelle degustazioni di vermentino, pigato e dei rossi. Abbiamo iniziato da una verticale di vermentino partendo dal più giovane 2019 fino al 2010. Per le annate più recenti il colore è giallo paglierino con riflessi verdastri, al naso sono significative le note fruttate e floreali, in particolare di pesca bianca, pera, limone e gelsomino, in bocca buona l’acidità e ottima la sapidità; il tannino è ancora un po’ verde e conferisce una leggera nota erbacea. Dall’annata 2016 il colore inizia ad imbrunirsi, infatti troviamo dei vini ambrati, al naso emergono le note resinone e di miele di castagno con una leggera nocciola tostata. Il tannino è meglio bilanciato e si accompagna ad un’eccellente sapidità ben spalleggiata da una buona acidità. Negli ultimi due vini, il 2011 e il 2010, emergono una forte nota burrosa, la frutta gialla ed il caramello.

La nostra degustazione, è poi proseguita con il pigato partendo anche in questo caso dal più giovane 2019. Nel triennio ’19, ’18, ’17 ci siamo trovati di fronte a dei vini con sentori di erbe mediterranee, agrumi e fiori gialli. Ottima la sapidità che ricorda il mare ad ogni sorso e buona l’acidità. Abbiamo poi concluso con un 2011 dalle note di mandarino, sambuco e miele, con una leggera ossidazione non invadente, un’eccelsa sapidità ben bilanciata da un altrettanto ottima acidità; vino fuori dagli schemi, che ci lascia sorpresi nella sua eleganza ed armonia. Per terminare in bellezza coi bianchi siamo passati ai prestigiosi “spigau” delle annate 2009, 2008, 2006, 2004, 2003 e 1999. Questo tipo di vino è definito dal nostro Fausto un “pigato speciale”. Dal primo bicchiere ci accorgiamo che è così, al naso preponderanti le note di albicocca, zabaglione, fichi secchi e caramello con sentore di idrocarburo. L’acidità non è eccelsa in tutte le annate, però si combina bene o con una buona mineralità o con l’ottima sapidità. Particolarmente ha stupito l’annata ’99, un vino fuori dagli schemi che mai ci saremo immaginati di trovare in una cantina; vista la veneranda età si percepisce una nota ossidativa che però non stona, ma anzi sembra dare ancora più forza a questo speciale pigato.

Per concludere in bellezza il nostro viaggio alla scoperta delle Rocche del Gatto ci sono stati serviti i rossi.

“Rossese” 2018, da uve 100% rossese, al naso si presenta con sentori fruttati di frutta rossa, in particolare fragolina di bosco e peperone etrusco. Vino leggero, sottile con un tannino delicato, ben supportato da una buona acidità, molto sapido sul finale.

“Rossese” 2017, da rossese in purezza, vino più fruttato del precedente, con prevalenza della ciliegia matura, spalleggiata da una nota speziata. Il tannino è morbido, vino più strutturato dell’annata precedente con un finale sempre sapido.

“Granaccia” 2018, da uve 100% granaccia, si presenta con sentori fruttati di frutti rossi e di rosa, accompagnati da una leggera nota di pelle. Colore scarico, buona sapidità ed acidità.

“Granaccia” 2017, da granaccia in purezza si ottiene un vino più intenso e strutturato del precedente. Al naso emergono la frutta rossa matura, con prevalenza della ciliegia e le spezie.

“Macajolo” 2006, da uve macajolo in purezza (il cosiddetto dolcetto piemontese). La vinificazione è stata condotta a freddo per avere una maggior estrazione degli aromi fruttati, che infatti prevalgono con la ciliegia matura. Il tannino è bilanciato ed è ben spalleggiato dall’acidità.

“Macajolo” 2004, 100% magajolo, anche in questo caso sono presenti le note di frutta rossa, ma emergono anche la pelle ed un pizzico di cacao. Vino ancora vivo che si lascia bere.

Finiti tutti i vini abbiamo realizzato perché Fausto è ritenuto un anarchico, con i suoi vini fa semplicemente ciò che vuole con una passione ed un amore disarmante. Come ci ha detto se il vermentino è il solista, il pigato l’orchestra e lo spigau l’orchestra sinfonica lui è sicuramente il direttore di questa bellissima sinfonia. Le Rocche del Gatto ci insegnano che non serve copiare gli altri per arrivare primi, ma basta solamente trovare il proprio modo di esprimersi. Un vino di qualità non porta etichette, sa parlare da sé.

Il pianoforte di Luigi Ferro e i suoni del vino.

di Gianpaolo Giacobbo, Musica di Luigi Ferro

Foto di Giulio Erbi

Il linguaggio della musica mi affascina da tempo. Nella musica sono nascoste informazioni che la parola non sa esprimere. E’ il mezzo più materiale di contatto tra anima e corpo. Non è mistero di come spesso senta la necessità di ricorrere alla musica per far emergere ciò che non riesco ad esprimere con le parole. Ho incontrato Luigi Ferro, pianista, compositore, docente di pianoforte, e insieme abbiamo voluto unire i due linguaggi in una sorta di ensamble che sapesse tradurre in musica le note del vino. Spesso nelle schede tecniche di degustazione si utilizza la parola “nota” per definire un tratto organolettico, a questa “nota” abbiamo voluto unire un suono. Timbro, intensità, dinamica, riverbero, espressività, sfumatura sono parole e sensazioni che condividiamo e che abbiamo voluto unire.

Siamo partiti con questo progetto da un vino prodotto da una famiglia che in qualche modo mi ha adottato agli inizi del mio percorso nel mondo del vino.

Amarone Pietro Dal Cero 2009 dell’Azienda Agricola Ca’ dei Frati

Buon Ascolto

Amarone Pietro Dal Cero 2009 dell’Azienda Agricola Ca’ dei Frati

Il colore rubino rapisce per il suo timbro e la sua intensità. La frutta è esuberante con una piacevolissima amarena che si fonde con note di cioccolato e spezie dolci. La finezza eleva la componente floreale e la rosa purpurea. Note balsamiche emergono sempre più convintamente, con note di anice stellato e mentuccia selvatica. Gli elementi terziari sono sottili e lasciano percepire piacevoli note di arabica e tabacco gentile.

Amarone Pietro Dal Cero 2009, Ca’ dei Frati – Sirmione BS –

L’uomo consapevole della sua terra muove le mani e rifiuta gli aiuti chimici

di Marta Pavan

La Liguria è una falce di luna posata sul mare, incastonata fra il Mar Mediterraneo e le Alpi. Ci troviamo nella provincia di Genova, nella zona di Levante, terra caratterizzata da colline scoscese, ulivi e boschi. Da queste parti non è facile essere viticoltori, infatti, vista la conformazione del territorio, non è possibile un invasivo utilizzo delle tecnologie e si pratica un’agricoltura eroica, dura, e dal sapore contadino di un tempo. In questi scenari quasi fiabeschi, in cui, da un lato soffia la brezza marina e dall’altro il vento dalle montagne, abbiamo incontrato Daniele Parma, titolare da ben trentacinque anni della cantina La Ricolla. Fra le vigne a Sestri Levante ci ha accompagnato alla scoperta della sua azienda che produce all’anno circa trentamila bottiglie. Agli inizi seguiva il sistema di agricoltura convenzionale, poi nel 2010 un primo cambio di rotta verso il biologico per concludere nel 2017/2018 con la definitiva conversione al biodinamico. Con questo sistema vengono coltivati sei ettari a vigna e sei a ulivi. I vigneti a bacca rossa sono granaccia, ciliegiolo e sangiovese. Tra i vini bianchi troviamo vermentino e bianchetta genovese. I trattamenti sono poco invasivi e a scopo preventivo delle malattie, si utilizzano rame, zolfo, alghe e propoli. Fondamentali il preparato 500, corno letame e il 501, corno silicio. Nel primo caso si utilizza due volte l’anno, in primis in autunno durante il periodo di semina delle erbe fra i filari; le leguminose fissano l’azoto e diventano un pascolo per gli insetti mentre le altre erbe aiutano il riassorbimento di rame e zolfo; in secondo luogo in primavera sulla trinciatura delle semine precedentemente piantate. Il corno silicio invece si usa una volta l’anno o nella fase di germogliamento, come messaggio di luce e per risvegliare l’humus, o in fase di maturazione in estati abbastanza verdi dovute al cosiddetto clima “maccaia” con nuvolosità velata, tipico di questa regione, per aiutare appunto il processo di maturazione dei grappoli.Il lavoro di Daniele si basa sul rispetto della natura con l’obiettivo di avere piante e grappoli vitali. Infatti se nell’agricoltura convenzionale si rincorre un problema cercando di risolverlo, in quella biodinamica lo si previene mettendo le piante nelle migliori condizioni per difendersi come farebbero in natura. Per fare ciò nelle vigne sono disposte tre differenti centraline meteo che aiutano il vignaiolo a prevedere gli andamenti climatici. L’intervento dell’uomo è quindi delicato, gentile e non invasivo.

La filosofia del rispetto della terra è stata portata anche nei vini. Così Daniele ci ha accompagnato in cantina. Qui è stato curioso vedere la presenza di diverse anfore, che non sono legate alla tradizione, bensì all’origine. Un’origine lontana dal vino dei giorni nostri, che ci riporta a come veniva fatto e trasportato dagli antichi, appunto con le anfore. Il concetto base è quello dell’utilizzo della terracotta, ambiente naturale e soprattutto “vivo” che lascia respirare. Il vino in questo specifico microclima è costantemente micro ossigenato. Questo strumento è usato per l’affinamento di bianchi e rossi e da quest’anno per la vinificazione del rosso a base di granaccia. Finito la breve visita ci siamo cimentati nella degustazione dei vini di Daniele accompagnati da una sua frase:

“Le bucce sono i miei lieviti, il tempo il mio chiarificante, le fecce i miei solfiti, la terracotta il mio legno e la vigna la mia cantina”.

“Berette” 2019, bianco fermo da uve 100% vermentino, re dei bianchi di questa regione. Il vino fermenta spontaneamente in acciaio con le proprie bucce senza il controllo della temperatura. Al naso appaiono delicate le note di resina e miele di castagno accompagnate dalla frutta gialla; il tannino dato dalle bucce è morbido e ben si bilancia con la buona sapidità e l’acidità. I solfiti sono aggiunti sono nel momento dell’imbottigliamento con una quantità di 20 mg/l.

“Óua” 2019, questo termine deriva dal dialetto genovese e significa “ci siamo”. Anche in questo caso abbiamo un bianco fermo da vermentino in purezza. La grande differenza rispetto al precedente è che questo vino è stato messo di fronte all’ossigeno senza alcuna protezione, con l’affinamento in anfora di otto mesi. C’è una leggera nota ossidativa di frutta gialla matura, un po’ di vegetale e le note delicate del miele di castagno. Vino elegante ed armonico, il tannino non è invasivo, buone acidità e sapidità tipica dal territorio.

Ci troviamo di fronte a dei vini legati alla tradizione, che ben si abbinano alla gastronomia locale; infatti sono ottimi col tipico coniglio alla ligure o con qualche fritto.I vini della Ricolla hanno sicuramente la loro anima e profumano di libertà. Libertà di sperimentare e di potersi esprimere senza omologazione e tecnicismi. In questa azienda si ha la sensazione di fare un passo indietro nel tempo, quando la terra era l’anello di congiunzione tra cosmo e vino. Perché alla fine ognuno è biodinamico a modo suo, esistono infatti delle linee guida generali, ma poi è solo l’uomo che conosce i momenti topici della propria vigna ed ha il dovere di rispettarli in silenzio. 

Mondragon, quando la natura prevale sull’uomo

di Marta Pavan

Non si può domare l’indomabile, ma si può cercare di conviverci

La località di Mondragon si trova nel comune di Tarzo, piccolo paese vicino a Vittorio Veneto. Qui il tempo sembra essersi fermato, non ci sono tracce di urbanizzazione e la natura non ha mai ceduto la terra all’uomo. Gli antichi abitanti di Tarzo erano di stirpe veneto-celtica, considerati quasi dei barbari dai romani, vissero sempre in sintonia con le colline, i boschi, le vigne e gli ulivi. In questo contesto abbiamo incontrato Gabriele, piccolo produttore locale che ha osato sfidare questi luoghi selvaggi nel Mondragon. Il nome di quest’area deriva dal fatto che, guardando la conformazione delle colline, si ha il ricordo della schiena scoscesa di un drago. Siamo a 360 metri sul livello del mare, su una proprietà di circa 3,5 ettari che comprende il bosco, gli ulivi e le vigne. Il territorio è stato completamente recuperato dall’abbandono e regala oggi paesaggi mozzafiato. Nel 2012 Gabriele pianta le prime vigne e l’anno successivo, nel 2013, apre la sua azienda agricola. I suoi vigneti coprono una superficie di neanche un ettaro e sono stati denominati ”Utia”, “Garbeo” e “Larga longa”. I prodotti utilizzati per i trattamenti sono zolfo, rame, microorganismi, alghe e propoli, tutti volti a rispettare la biodiversità del luogo. La produzione annua è di circa 2000 bottiglie e le tipologie prodotte sono Mondragon rifermentato in bottiglia e Mondragon fermo. Il terreno di origine sedimentaria, ricco della cosiddetta “ru”, ossia argilla compatta, è molto difficile da coltivare, in quanto è caratterizzato da pendii e dislivelli impervi.

Dopo un piccolo tour all’interno della proprietà, in cui vi sono anche tre alberi secolari che producono l’antico “per dea cotta” (una storica varietà di pera), ci siamo immersi nella degustazione dei vini di Gabriele iniziando dai prodotti a base glera.

“Glera 2016”, prodotto senza l’aggiunta di solfiti, fermentazione spontanea, con una macerazione sulle bucce di sedici giorni. Da questo deriva il colore dorato, al naso risulta molto fruttato con sentori di frutta gialla matura, accompagnati da note agrumate. Il vino ha fatto anche un passaggio in legno, che ha rilasciato delle piacevoli sensazioni di tostatura. Il tannino dato dalle bucce e dal legno conferisce longevità e stabilità. Ci troviamo in una produzione fuori dagli schemi che non rispetta le solite “regole” di vinificazione adottate per quest’uva. Un produttore che sicuramente vuole osare e distinguersi dalla massa.

“Glera 2017”, vino di color giallo paglierino con riflessi dorati, le note di frutta gialla sono meno spiccate del precedente, ma ben si accostano a quelle burrate e di limone. Anche in questo caso è stata fatta la macerazione prolungata sulle bucce, senza però il passaggio in legno. Si percepisce dalle bucce un tannino morbido.

“Fermo 2016”, un bianco fermo ottenuto da diverse uve tra le quali incrocio Manzoni, il cosiddetto “prosecco malvasia” e la malvasia d’Istria. La macerazione conferisce una maggior estrazione aromatica che si sente bene al naso con spiccati sentori fruttati accompagnati dalle note di gelsomino; in bocca molto forte la sapidità e buona la freschezza.

“Fermo 2017”, vino bianco fermo ottenuto da “prosecco malvasia” e garganega, dal colore giallo paglierino. Al naso emergono le note fruttate, di pesca e di agrumi. Buona la freschezza e molto forte la sapidità.

“Fermo 2018”, un ultimo bianco fermo con uve glera, verdiso, incrocio Manzoni e “prosecco malvasia”. Di color giallo paglierino con riflessi dorati conferiti dalla macerazione. Al naso ben fruttato con prevalenza della pera accompagnata dalla frutta gialla e dal limone, con una leggera nota di burro. Molto fresco e buona la sapidità, i tannini anche in questo caso conferiscono una buona stabilità.

I vini di Gabriele sono senza alcun dubbio legati al territorio e privi di tecnicismi. Ciò che la natura dà in vigna si ottiene alla fine in bottiglia. Questa è un po’ la sintesi della vita a Mondragon, in cui l’uomo è entrato in punta di piedi e per una volta non è il protagonista, ma resta in disparte e cerca di cogliere tutti i segreti della natura.

di Marta Pavan

Breganze, piccolo borgo vicentino, è incastonato tra i fiumi Astico e Brenta ai piedi dell’altopiano di Asiago. Si divide in una parte pianeggiante ed una collinare, quest’ultima a vocazione vitivinicola è caratterizzata da una buona esposizione al sole e da un terreno per la maggior parte di origine vulcanica. È qui che troviamo la Breganze DOC, famosa denominazione che valorizza e tutela i vini e i vitigni di quest’area. Il più famoso fra questi ultimi è sicuramente il vespaiolo che può essere vinificato fermo, spumante o passito, dando vita nell’ultimo caso al ben noto Torcolato. In questa cornice collinare dove negli ultimi anni si è dato sempre maggior spazio ai vitigni internazionali, emergono i Canevisti, gli ultimi rappresentanti di quell’autenticità vera che il territorio sta abbandonando. Si definiscono un gruppo di amici, appassionati vignaioli, provetti vinificatori e saggi bevitori che condividono alcuni valori della cultura del vino. Una cultura che siamo andati a scoprire con i nostri occhi partendo dalla vigna storica di Enrico, chiamata le Zaffanaglie. In questo piccolo vigneto di circa 3000 metri, neanche un campo vicentino, si trovano solo vitigni della tradizione, come groppello, garganega, gruaja e durella; per un totale di 700 viti che adesso si possono anche “adottare”. Con questa sorta di adozione a distanza ogni pianta ha una sua targhetta col nome con cui il proprietario vorrà battezzarla. Una simpatica iniziativa volta a far conoscere ed aiutare questo progetto di rivalutazione del territorio coinvolgendo il maggior numero di persone possibili (ad oggi solo metà delle piante sono state adottate, quindi c’è ancora molto spazio per nuove targhette). Una volta scesi dalla vigna siamo andati a trovare un altro canevista, Cristian, nella sua azienda, la cantina Rarefratte, il cui nome è accompagnato dalla dicitura “vini rari e autoctoni”. Qui davanti ad un buon salame accompagnato a qualche fetta di pane abbiamo assaggiato i vini dei canevisti.

“Bianco del canevista” 2019, un vino bianco fermo dalle uve garganega e durella della vigna storica. Al naso si presenta molto pulito e tecnico, con sentori fruttati di mela verde e limone. La fermentazione è spontanea con controllo della temperatura, mantenuta intorno ai 18/20 °C. Fresco e molto sapido, caratteristica conferita dal terreno vulcanico.

“Rosè groppello e gruaja” 2017, le due uve della vigna storica sono state vinificate in rosato, dando vita ad un vino più “selvatico” del precedente, che meglio caratterizza lo stile dei canevisti. Forte il sentore della fragolina di bosco, il tannino è delicato ed equilibrato e ben accompagna la sapidità.

“Groppello spumante” 2017, vino 100% groppello, caratterizzato da sentori di frutta di sottobosco, molto fresco e quindi con una buona acidità, sapido e con un tannino delicato.  

 “Vespaiolo spumante” 2017, dall’uva regina di queste terre si ottiene uno spumante di color giallo paglierino coi riflessi dorati. Una nota ossidativa al naso ricorda la frutta gialla matura accompagnata dalle note burrate dell’affinamento sui lieviti. Buona acidità e freschezza. Vino che può ancora esprimersi trovando maggior equilibrio.

“Vespaiolo spumante” 2016, ottenuto da vespaiolo in purezza troviamo un vino elegante e delicato, fruttato e floreale al naso con un sentore di crosta di pane, anche in questo spumante l’acidità è buona e conferisce un’ottima freschezza. Rispetto al precedente è più armonico e maturo.

“Groppello in appassimento” 2015, la vigna storica ci regala un ultimo vino, un passito realizzato col groppello in purezza. Al naso risulta subito molto fruttato, con sentori di marmellata di frutti rossi e un pizzico di speziato. Fresco ed elegante, ben bilanciato da un tannino morbido. Ottimo da abbinare alla selvaggina o al cioccolato.

Se è vero che coraggio deriva da “cor” che vuol dire cuore i canevisti ce ne mettono più di tutti. La loro voglia è quella di ritornare alle tradizioni unendo le generazioni passate con quelle presenti e future. Questo viene fatto cercando di rivalorizzare le varietà autoctone, togliendo le sovrastrutture tecnologiche ed ideologiche che ormai hanno portato alla produzione di vini troppo tecnici che non parlano più la lingua della terra.

Se anche tu vuoi adottare una vigna scrivi a: info@canevisti.it

Exboh!

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L’Expo a Milano è un evento da non perdere. Le motivazioni che ci possono spingere a visitare questo evento sono molteplici, una su tutte la curiosità per vedere un’area espositiva di 1,1 milioni di metri quadri, più di 140 Paesi e Organizzazioni internazionali coinvolti e oltre 20 milioni di visitatori attesi. Attenzione però perché l’Expo non è da prendere troppo sul serio e soprattutto occorre non farsi troppe domande e non cercare troppe risposte. E’ meglio lasciarsi andare, perdersi nel fiume delle migliaia persone che ogni giorno fluttuano nel decumano, la via principale dell’esposizione. Una cosa però, vi prego, non si possono fare cinque ore di attesa allo stand del Giappone !

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Altro punto da tenere ben presente che all’Expo non si va per mangiare e tanto meno per mangiare bene e sano. Visti i numeri, il cibo proposto, a dispetto del tema dell’evento, non sempre è di alta qualità, anzi mai. Magari il cibo proposto può avere le sembianze di un cibo genuino ma basta un boccone per capire che appartiene al solito cibo di fattura industriale o congelata con un vestito diverso. Del resto se nel Decumano,  le bancarelle con la frutta, il pesce, il pane , il formaggio, i salumi sono di plastica e polistirolo non possiamo aspettarci troppo dal cibo tra i padiglioni.

cina

Comunque l’Expo 2015 è organizzato molto bene i servizi sono validi, non sembra nemmeno di essere in Italia e, tutto sommato merita una vista per vedere tutto ad un tratto l’effetto che fa!

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